“La misericordia prima di tutto, su di essa si gioca la nostra salvezza”
"Sulle pagine del Vangelo - conclude il Fratel Bianchi -, non sta scritto “Andate, maledetti, perché avete fatto del male”. No, c’è scritto “Andate, perché avevo fame e non mi avete dato da mangiare; avevo sete e non mi avete dato da bere; ero vecchio e malato e non siete venuti a trovarmi; ero in carcere e non mi avete fatto visita; ero straniero e non mi avete accolto in casa”. Sono solo peccati di omissione, non azioni cattive, ma se Gesù ci ha detto che su questo saremo giudicati per entrare nel Regno dei cieli, allora la misericordia non è una virtù tra le altre. Su di essa ci giochiamo la nostra salvezza, ma anche la qualità umana della nostra vita terrena"
La misericordia di Dio è infinita e viene sempre prima di tutto. Lo ha spiegato senza mezzi termini Fratel Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, intervenuto lunedì sera presso un’affollatissima chiesa dello Spirito Santo per tenere una Lectio dal titolo “Gesù racconta la misericordia del Padre”.
Il tema al centro dell’Anno santo straordinario indetto da Papa Francesco, che il monaco sviscerato fino in fondo contestualizzandolo nell’ambito del nostro contesto di vita attuale: «Sì – spiega Bianchi -, la misericordia annunciata da Gesù scandalizza, vi dirò che certe pagine del Vangelo mi scandalizzano, come hanno scandalizzato anche scribi e farisei, perché anch’io non riesco a vedere i miei peccati che invece ci sono. E credo, magari, di risolvere le cose con il rigore».
Un primo esempio ci giunge attraverso l’episodio biblico della donna adultera, che Gesù salva dalla lapidazione dicendo ai sacerdoti intenti ad eseguire la sentenza la famosa frase “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”: «E a quel punto – osserva il priore della comunità di Bose – mette in crisi quei religiosi, per i quali la legge era più importante di una persona. E il Vangelo ci dice che, a cominciare dal più vecchio, hanno mollato la pietra e se ne sono andati dopo aver fatto una conta veloce e aver capito di averne fatte tante. Gesù li ha anche un po’ convertiti».
Quindi restano Gesù resta solo con l’adultera, dicendole “Va, neppure io ti condanno, non peccare più”: «Quel “neppure io ti condanno” – denota Enzo Bianchi – suona agli occhi dei religiosi come una bestemmia, ma Gesù non è che diceva che la legge riguardo l’adulterio fosse da dimenticare, ma sapeva che almeno all’interno della Chiesa doveva regnare la misericordia».
Tutto questo in anticipo, rispetto ad una società che prende nel tempo determinate misure cautelative, dipendenti dal suo cammino di umanizzazione: «Ma duemila anni fa Gesù, senza aspettare il lento cammino di umanizzazione della società, – sottolinea il monaco di Bose – ha invece detto che quando c’è il peccato e la legge infranta, non regna altro che la misericordia. Non dimenticatelo, la misericordia è l’ultima parola, non il giudizio. Non ve lo dico io, ma l’apostolo Giacomo che avendo preso tutto l’insegnamento di Gesù disse “Perché, fratelli, nel giudizio vince sempre la misericordia”».
Questo, dunque, scandalizza così come ha sempre scandalizzato la vita di Gesù, iniziata fra i peccatori e finita sulla croce tra due peccatori, due delinquenti: «Gesù – ricorda Bianchi – preferiva prostitute e pubblici peccatori (coloro i cui peccati sono stati scoperti) ai religiosi. Non perché scusasse il loro peccato, ma perché sapeva che uno che è costantemente giudicato ha una vergogna dentro tale da voler cambiare, anche se poi sovente non ce la fa. Ecco perché Gesù ha potuto dire alla prostituta della città “Ti sono rimessi i tuoi peccati”, mentre al giusto fariseo che l’aveva invitato a tavola dice “Tu non hai proprio capito niente”, perché costui diceva “Se si lascia fare questo da una prostituta o è un uomo ingenuo o è uno che ci sta”. E Gesù gli dice “Non hai capito nulla, perché… ama molto quello a cui molto si perdona”. E quella prostituta, perdonandola, Gesù l’ha ricreata come una donna nuova e lei si è convertita».
Così, siccome i peccatori pubblici andavano da Gesù, il versetto 1 del capitolo 15 del Vangelo di Luca racconta che i religiosi legalisti giusti incalliti, che amano le leggi più che le persone, mormoravano: «Gesù – approfondisce il priore di Bose – si occupa della pecorella smarrita e lascia le altre 99 nell’ovile. Ma siccome molti di noi si sentono tra le 99, allora pensano che Gesù non si occupi più di loro. Così è nella Chiesa. Ci sono pastori che per curare le 99 pecorelle che hanno nell’ovile, non vanno a cercare quella che si è perduta. E che succede, il giorno dopo ne scappa un’altra, si perde, poi ne scappa un’altra ancora e loro non corrono a cercarla. Così, alla fine, tutto il gregge è scappato».
Dunque, quella di Dio è una misericordia che non va mai meritata: «Io penso – riflette Enzo Bianchi – a quante mamme, seppur con buone intenzioni, hanno detto al proprio figlio “Stai buono, perché se fai il cattivo Gesù non ti ama più”. Questa è una grave bestemmia, anche se molti l’hanno detta a fin di bene, ma la colpa è di quelli che hanno lasciato che nella comunità cristiana si arrivasse a dire ciò. Ma l’amore di Dio non va mai meritato. Dio dà a tutti la stessa cosa, perché la misericordia non ha canoni meritocratici».
Nello schema cristiano infatti, a detta del monaco, non c’è quello schema definito “perverso”, rappresentato nel titolo del libro di Dostoevskij “Delitto e castigo”: «No – ammonisce Bianchi -, quando c’è il delitto, o il peccato, ci vuole il perdono che causa il pentimento e la conversione. Questo è lo schema cristiano, che ha affermato il Vangelo e che continua ad affermare Papa Francesco. Al delitto (peccato), ne consegue il perdono (assoluzione), il quale induce al pentimento e alla conversione. Noi, invece, continuiamo ad avere l’altro schema, ovvero se uno compie un delitto si pente, si converte e quindi si perdona. No, questo non è cristiano, è secondo tutte le religioni ma non è secondo il Vangelo».
Ma come poter vivere concretamente la misericordia nella vita d’ogni giorno?: «La misericordia – spiega il priore della comunità monastica di Bose – non è un sentimento che deve restare tale, ma deve diventare realtà attraverso ogni cristiano che non si perde nel guardare, ma si esercita nel vedere che significa avere il coraggio di guardare l’altro negli occhi quando lo si incontra. Bisogna guardarlo negli occhi, mettendosi faccia a faccia, solo così si potrà conoscere la sua identità».
Questo è il primo passo tramite il quale, una volta imparato a vedere, si potrà acquisire la capacità di farsi vicino al prossimo: «Noi – constata il monaco – oggi siamo in una società contraddistinta da una cultura che ci porta a vivere i rapporti senza più avvertirne la responsabilità, virtualmente, da lontano attraverso i computer e gli smartphone. Noi oggi vogliamo bene a chi è distante, soffriamo di una presbiopia della carità. Oh, come amiamo quelli che sono in Africa, gli mandiamo il messaggino da 5 euro, ma che non mettano piede in casa nostra. Poi arriva Natale e facciamo la messa dei poveri. Che vergogna, quando sento che in certe parrocchie fanno queste cose. Mi vergogno di essere cristiano, perché se uno è cristiano in quei giorni di Natale ne invita uno a casa a mangiare al suo tavolo. Molto comodo che ci siano gli addetti Caritas che gli danno da mangiare per noi. Che carità è questa? Perché continuiamo a raccontarci frottole sull’amore verso i fratelli e poi non abbiamo il coraggio di piegare le mani su di loro? Amiamo quelli che muoiono di fame in Biafra e se sul nostro pianerottolo c’è qualcuno che è solo, lo salutiamo appena o forse neanche. Fare misericordia richiede prossimità».
Inoltre, per essere realizzatori di misericordia è necessario capire i bisogni dell’altro e non determinarli: «Perché magari – osserva Enzo Bianchi -, un povero non ha semplicemente bisogno di avere 10 euro da noi, ma di qualcuno che gli dia una carezza o che gli chieda “Ma perché sei finito così?”. No, non dobbiamo predeterminare la miseria dell’altro, se la nostra misericordia è cristiana dobbiamo incontrare e ascoltare chiunque. Poi, magari, si tratta di una persona ricca ma di una solitudine estrema. Anche lui è un povero, ma Gesù non ha mai distinto. Andava a mangiare da poveri, ricchi e peccatori».
Questa dunque è la misericordia, la missione che noi cristiani siamo chiamati a realizzare e a testimoniare, sulla quale saremo giudicati: «Sulle pagine del Vangelo – conclude il Fratel Bianchi -, non sta scritto “Andate, maledetti, perché avete fatto del male”. No, sta scritto “Andate, perché avevo fame e non mi avete dato da mangiare; avevo sete e non mi avete dato da bere; ero vecchio e malato e non siete venuti a trovarmi; ero in carcere e non mi avete fatto visita; ero straniero e non mi avete accolto in casa”. Sono solo peccati di omissione, non azioni cattive, ma se Gesù ci ha detto che su questo saremo giudicati per entrare nel Regno dei cieli, allora la misericordia non è una virtù tra le altre. Su di essa ci giochiamo la nostra salvezza, ma anche la qualità umana della nostra vita terrena. Anche chi non crede in Dio e non è cristiano, se misericordioso, fa una vita che ha un senso e vive meglio di chi non trova un senso, perché non sa fare misericordia».
Ma non abbiamo abbastanza predicatori cattolici da dover sentire le omelie di questo signore che non ci è niente, che è solo portatore di sincretismo religioso? Ci sono sacerdoti bravissimi, della cui parola ci si può fidare, ma perché date tutti tanto spazio a questo nulla pericoloso?