Réginald Garrigou-Lagrange: senso comune, filosofia e teologia
E' possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si pensi, solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell'umanità (S. Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 4)
Il trattato Le sens commun, la philosophie de l’être e les formules dogmatiques di Réginald Garrigou-Lagrange uscì la prima volta nel 1909 e, a questa prima edizione molta apprezzata per la polemica nei confronti del modernismo teologico (cfr. Pio X, Pascendi Dominici Gregis), seguirono altre due edizioni in cui l’Autore, soprattutto nella terza (del 1921), approfondì questioni di natura filosofica e i rapporti tra la filosofia e la teologia. Nella presentazione di quest’ultima edizione leggiamo: «La controversia [sul modernismo] è stata messa in secondo piano […] ciò ha favorito l’approfondimento di quegli argomenti dell’opera che hanno un valore più positivo […]: il problema della natura e del valore del senso comune, che costituisce l’oggetto della prima parte. Lo studio sul senso comune e le prove tradizionali dell’esistenza di Dio […] è diventato la seconda parte dell’opera» infine «la terza parte: il senso comune e l’intelligenza delle formule della fede cristiana» (Il senso comune, la filosofia dell’essere e le formule dogmatiche, Leonardo da Vinci, Roma 2013, pag. 25). È facilmente intuibile l’attualità di una simile trattazione: potrà giovarsene l’indagine filosofica per il recupero di un «pensiero forte» in polemica con gli indirizzi della scuola post-metafisica; ne trarrà giovamento anche l’intelligenza della fede, che necessita di un recupero della metafisica classica, come ha evidenziato Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio.
Il filosofo e teologo domenicano stabilisce innanzitutto il valore della stessa intelligenza umana, in secondo luogo esamina varie teorie filosofiche (razionalismo innatista e ontologista, il criticismo kantiano, il pragmatismo e il nominalismo), per poi far seguire la dimostrazione che il senso comune si riconosce solo nella filosofia dell’essere. Dopo questa trattazione l’Autore si sofferma sulla giustificazione dei primi principi della ragione, per poi passare, nella seconda parte dell’opera a confutare le obiezioni contro le prove tradizionale dell’esistenza di Dio (Cfr. Il senso comune, pp. 133-206).
A questo punto inizia la terza ed ultima parte del trattato, dove Garrigou-Lagrange si sofferma sul valore delle formule dogmatiche e si chiede quale sia la filosofia adeguata per l’interpretazione del dogma. Arriviamo così ad un punto delicatissimo: «noi – afferma il teologo – non abbiamo difficoltà ad ammettere che la fede può esprimersi in termini di senso comune (la formula di fede dei primi fedeli non conteneva alcun termine tecnico): se le nozioni di senso comune contengono confusamente una definizione reale vera, quid rei, possono tradurre analogicamente la realtà divina» e da ciò deriva una conseguenza importantissima per la questione dell’ermeneutica del dogma, e cioè che proprio per la ragione suddetta «ogni sistema filosofico che rompe con il senso comune, come il fenomenismo o la filosofia del divenire, ogni sistema che rifiuta una portata ontologica alle nozioni prime di essere, di sostanza, di cosa, ecc., non potrà servire a precisare la formula dogmatica primitiva, a formulare o a pensare filosoficamente il dogma» (pag. 219). È quindi necessario – come dirà più tardi Giovanni Paolo II – «che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale vera e coerente delle cose create, del mondo e dell’uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina» (Fides et ratio, n. 66).
Ma cosa vuol dire “conoscenza naturale vera e coerente delle cose create”? Le parole del papa suggeriscono al credente che la riflessione teologica non può accettare qualsivoglia sistema filosofico, ma – afferma anche Garrigou-Lagrange – solo quello che non contraddice la “conoscenza naturale” delle cose: Giovanni Paolo II mostra al teologo la via giusta da seguire, e pur non canonizzando una filosofia in particolare, sottolinea che «la teologia dogmatica speculativa presuppone e implica una filosofia dell’uomo, del mondo e, più radicalmente dell’essere, fondata sulla verità oggettiva» (Fides et ratio, n. 66 [corsivo mio]), filosofia che trova la sua più alta espressione nella tomistica il cui valore non verrà mai meno «perché bisognerebbe che venisse meno il valore delle cose» (Pio XI, Discorsi, vol. I, Torino 1960, pp. 668-669); in altri termini «se, per un motivo o per l’altro, la formula primitiva ha bisogno di essere precisata, non può esserlo se non facendo ricorso a quella filosofia dell’essere che è il prolungamento naturale dell’intelligenza spontanea» (Il senso comune, pag. 219).
Concludo rilevando che lo studio da Garrigou-Lagrange conduce alla consapevolezza che il pensiero non può creare il proprio oggetto, esso è “dato” e da questo “dato” esso non può non partire e costantemente ritornare. Non si può comprendere la grandezza della ragione umana se non attraverso i suoi limiti. Allo stesso modo l’indagine teologica: come insegna Tommaso d’Aquino «le scienze profane non devono dimostrare i propri principi, ma dai loro principi argomentano per dimostrare altre tesi, così la sacra dottrina non dimostrerà i propri principi, che sono gli articoli di fede, ma da essi procede per la dimostrazione di qualche altra cosa» (Summa Theologiae I, q.1, a. 8, c.).