Fede o ragione?
«Lungi da noi pensare che Dio disapprovi la facoltà della ragione, in virtù della quale ci ha creati superiori agli altri esseri animati. Lungi da noi pensare che la fede ci impedisca di trovare la spiegazione razionale di quanto crediamo, in quanto non potremmo neanche credere se non possedessimo un’anima razionale» (Sant’Agostino, Lettere, 120,1,3)
È luogo comune pensare l’atto di fede come un atto essenzialmente irrazionale. Spesso, infatti, si sente dire che lì dove vi è fede deve essere esclusa la ragione e viceversa. Nulla di più lontano dalla verità, ma cerchiamo di chiarire cosa sia la fede, eliminando così qualche pregiudizio.
La ragione è una facoltà conoscitiva di cui è dotato l’uomo, è ciò per cui l’uomo supera in eccellenza gli altri esseri. Schematizzando, possiamo dire ci sono atti di conoscenza:
- diretti e immediati. Si tratta dell’esperienza originaria che sta alla base di ogni altra conoscenza (ciò che una certa scuola di pensiero chiama senso comune, vedi qui e qui).
- diretti, ma mediati. Si tratta dell’inferenza, del ragionamento con cui si trae una conseguenza da una o più premesse;
- infine indiretti, cioè la conoscenza di realtà non evidenti a cui si giunge per il tramite di un testimone. Essa può riguardare oggetti naturali (fatti storici, cultura, pensieri altrui) o fatti soprannaturali (fede nella Rivelazione).
Soffermiamoci proprio sul terzo punto. Nell’atto di fede la situazione in cui si trova il soggetto conoscente è l’impossibilità di raggiungere una determinata realtà che egli vuol conoscere e difatti il fenomeno della fede «si dà allorché la testimonianza altrui porta un soggetto alla certezza riguardo a un oggetto che gli è inevidente» (A. Livi, Verità del pensiero, LUP, Roma 2002, p. 165), e se questa conoscenza è legata al dubbio e al rischio per ciò che concerne la testimonianza di un uomo, perché l’uomo in quanto essere finito può errare oppure mentire, nella fede cristiana il testimone non è un uomo qualsiasi bensì il Verbo stesso di Dio, ed è per questo che «se ne è più certi della propria esistenza»: è «la Prima Verità che ha parlato» (J. Maritain, La fede e le sue vie, in J. Guitton-J. Maritain, La fede. Dono e mistero, Massimo Milano 1998, pag. 39). La certezza di cui parla Maritain, nel passo appena citato, è, ovviamente, fondata sulla consapevolezza «che la razionalità dell’atto di fede nella rivelazione divina implica la funzione critica della ragione umana, ossia il vaglio razionale della credibilità dell’enunciato (la sua non-contraddittorietà, alla luce delle leggi metafisiche e logiche), e prima ancora il vaglio razionale della credibilità del teste» (A. Livi, Razionalità della fede nella Rivelazione, Leonardo da Vinci, Roma 2005, pag. 105). In questo senso l’atto di fede non è un salto nell’assurdo, bensì un’adesione a Dio fatta con intelligenza: «la fede, nel senso biblico, è una intelligenza, l’atto supremo dell’intelligenza che ha saputo discernere i segni che Dio propone. La fede è un’adesione dell’intelligenza alla verità di Dio, manifestata con segni intellegibili e tangibili. Nessun salto qualitativo nell’assurdo. C’è discernimento di segni e intelligenza del senso» (C. Tresmontant, Fideismo e razionalità della fede, in «Studi cattolici» (1967), pp. 410-425). Che la fede non si opponga alla ragione è dunque evidente e risulta ancora più chiaro dall’evento stesso dell’Incarnazione: Dio va incontro all’uomo e sarebbe assurdo pensare questo incontro come incomprensibile. Infatti la Prima Verità non si inganna né può ingannare, Egli è la fonte sia della ragione che della fede e se tra le due vi fosse opposizione, vi sarebbe una contraddizione nell’agire della Prima Verità (Dio) cosa palesemente impossibile. Di questo accordo ci parla Tommaso quando osserva che «i princìpi radicati naturalmente nella ragione sono talmente veri che non è nemmeno possibile pensarli come falsi; né d’altra parte è lecito ritenere come falsa la fede, che ha avuto da Dio conferme così evidenti. Perciò siccome il solo errore è contrario alla verità, come appare chiaramente dalla loro definizione, è impossibile che la verità di fede sia contraria a quei principi che la ragione conosce naturalmente» (Tommaso d’Aquino, Liber de veritate catholicae fidei, I, 7). Occorre dunque combattere il pregiudizio che vede la fede opposta alla ragione e ristabilire un equilibrio ormai perduto; occorre combattere il pregiudizio che vuole una ragione indebolita o snaturata a causa della fede nella Rivelazione, un pregiudizio che ha portato un pensatore del Novecento, di grande influenza, come Martin Heidegger a dire che il filosofo cessa di essere tale se parla di filosofia cristiana (vedi qui), perché è come parlare di un «ferro ligneo», cioè di qualcosa di manifestamente contradditorio.
Concludo citando ancora una volta Tommaso d’Aquino attento alle distinzioni, ma lontano da ogni forma di separazione: «Prestando fede a queste verità [di fede], che la ragione umana non è in grado di controllare, non si fa un atto di leggerezza, quasi prestando fede a dotte favole. Poiché la stessa sapienza divina, che tutto conosce in modo completo, si degnò di rivelare i suoi segreti agli uomini; mostrando il suo intervento e la verità del suo insegnamento e della sua ispirazione con argomenti adatti: confermando cioè cose che sorpassano la conoscenza naturale con opere visibili superiori alle capacità di tutta la natura. Vale a dire con la guarigione prodigiosa di malattie, con la risurrezione dei morti, con le mutazioni miracolose dei corpi celesti, così da riempire col dono dello Spirito Santo uomini ignoranti e semplici, facendo loro conseguire all’istante somma sapienza ed eloquenza. In considerazione di ciò, per l’efficacia delle prove suddette e non già per violenza di armi, né per attrattiva di piaceri e, cosa mirabilissima, in mezzo alla tirannia dei persecutori, una turba innumerevole non solo di persone semplici, ma anche di uomini sapientissimi, abbracciò la fede cristiana; nella quale vengono predicate cose che trascendono qualsiasi intelletto umano, mentre insegna a tener a freno i piaceri della carne, e a disprezzare tutte le cose del mondo. Ora, l’adesione degli animi dei mortali a queste cose è insieme il più grande dei miracoli, ed esige l’intervento manifesto dell’ispirazione divina, per disprezzare le cose visibili nel solo desiderio di quelle invisibili. E questo non avvenne improvvisamente o per caso, ma per disposizione divina, come è evidente dalla predizione fattane in precedenza dagli oracoli di molti profeti, i cui libri sono stati conservati religiosamente fino a noi, come testimonianza della nostra fede. Questa mirabile conversione del mondo alla fede cristiana è segno certissimo degli antichi miracoli, così da non essere necessaria la loro ripetizione, apparendo così evidenti nei loro effetti. Sarebbe infatti il più strepitoso dei miracoli, se il mondo fosse stato indotto a credere cose tanto ardue, a compiere azioni tanto difficili e sperare cose tanto alte da uomini semplici e poveri, senza prodigi mirabili» (Tommaso d’Aquino, Liber de veritate catholicae fidei, I, 6).