“Solo attraversando il deserto, troveremo la voce del Signore”
"Non servono tante penitenze esteriori - sottolinea l'arcivescovo Valentinetti -, ma serve la penitenza del cuore contrito e umiliato, il sorriso a una persona antipatica, il fiore regalato a chi ci ha fatto del male, la gioia del dono in una situazione difficile. Tutto questo, inizia ad essere un esercizio di vita interiore, che fa guardare con molta più attenzione al mistero della grazia che, comunque, si riversa su di noi ed è il mistero della Pasqua verso cui stiamo camminando"
Gesù Cristo riesce ancora ad essere per tutti i credenti una novità, una buona notizia per la nostra vita? A questo interrogativo ieri sera ha risposto l’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti, pronunciando la prima meditazione nell’ambito degli esercizi spirituali che si svolgeranno – ogni sera alle ore 21 fino a venerdì – presso il Santuario della Divina Misericordia a Pescara.
Una domanda tratta dall’approfondimento del Vangelo di Marco, al centro degli esercizi spirituali, a partire su come viene introdotto il Figlio di Dio nel mondo, facendo riferimento a uno profezia del profeta Isaia “Ecco, io mando il mio messaggero davanti a Te, egli ti preparerà la strada, voce di uno che grida nel deserto”: «Poi si presentò Giovanni a battezzare nel deserto – ricorda il presule -, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Allora, l’introduzione di questo Messia avviene attraverso l’opera di un precursore che gli prepara la strada. Ma attenti, per ben due volte nel Vangelo – una volta nella citazione del profeta Isaia e una seconda con l’evangelista che riprende la stessa citazione – si cita il deserto. Non è casuale, perché questo elemento è fondamentale nell’esordio della vita di Gesù e in questa interpretazione di quella che è stata la vita di Gesù o di quella che è stata la nostra vita».
Sì, perché a detta dell’arcivescovo, il deserto non è solo quello vissuto dai cristiani per praticare gli esercizi spirituali: «Ma è – sottolinea – la chiave di interpretazione della vita di Gesù e della nostra vita. Perché, prima o poi, tutti abbiamo a che fare con il deserto, che non è il luogo dell’amenità, della dolcezza o della presenza del Signore, ma è il luogo della tentazione, della mancanza (nel deserto non c’è né cibo né acqua e l’evangelista Marco descrive come Giovanni Battista mangiasse locuste e miele selvatico) e della sofferenza. Perché Gesù ha attraversato i suoi tanti deserti e anche noi dobbiamo attraversare i nostri. Il rinnegamento di Pietro non è stato forse un deserto per Gesù? Il tradimento di Giuda non è stato forse un deserto per Gesù? La crocifissione non è stato forse un deserto per Gesù? E la sua morte non è stata, allo stesso modo, un deserto per Gesù? La vita di Gesù è stata umanissima e non c’è stato niente di umano che Gesù si sia risparmiato».
Questo deve indurci a pensare che, prima o poi, anche noi attraverseremo i nostri deserti: «Il deserto del rifiuto – elenca monsignor Valentinetti -, il deserto dell’incomprensione fisica, della sofferenza, del tradimento e della morte perché tutti prima o poi, chi all’improvviso (speriamo di no, perché è bene prepararsi alla morte), questo deserto dovremo attraversarlo. E nel momento della morte potremo avere tutte le persone possibili e immaginabili intorno, ma alla fine saremo soli. Siamo nati soli e moriremo soli, nel deserto».
Partendo da questo presupposto, l’arcivescovo di Pescara-Penne si è quindi chiesto se il deserto vogliamo attraversarlo o se vogliamo lasciarci schiacciare da esso: «Perché quando arriva il deserto – ammonisce monsignor Tommaso Valentinetti – abbiamo una sola possibilità, attraversarlo e andarci dentro. Questo perché quando si va nel deserto e si va avanti, allora si incontra la voce del Signore e non tornando indietro. Quando incontriamo le difficoltà, pensiamo di risolvere scansandole? Non vale, si può realmente arrivare alla meta perché, finalmente, c’è qualcuno che prepara per noi la strada ed è la strada del Signore che non ha usato la sua potenza, la sua forza, il suo essere Dio per liberarsi di queste fatiche, ma le ha attraversate tutte». L’ultima tentazione per Gesù è quella della croce “Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce e noi ti crederemo”: «Avrebbe potuto farlo attraverso la sua potenza – osserva il presule -, ma non lo ha fatto perché lui non era dalla parte dei potenti, ma delle vittime, degli ultimi».
Dunque il deserto è un luogo da attraversare, ma è anche quello in cui è possibile purificarsi dai peccati: «Ma la conversione e il perdono dei peccati – spiega monsignor Valentinetti – non arriva dal pensare che attraverso atti straordinari noi cambiamo la nostra vita e la volontà di Dio, ma le cambiamo vivendo il quotidiano della nostra vita. Certo, qualche penitenza la possiamo fare, qualche pellegrinaggio – per ritemprare la nostra spiritualità lo possiamo fare -, ma attenzione perché non viviamo di “dolci” ma di “pane”. Mentre i dolci arrivano ogni tanto, è il pane che mangiamo ogni giorno e che nutre la nostra vita e la nostra esperienza di fede. Un pane duro che si chiama vita e dietro il pane duro della vita, c’è la conversione e il perdono dei peccati».
Andando avanti nel leggere il Vangelo di Marco, emerge come Giovanni Battista riconoscesse che lui battezzava con acqua mentre chi lo avrebbe seguito, avrebbe battezzato per mezzo dello Spirito Santo, ricevendo una grazia ulteriore che non veniva dalle opere di penitenza, ma dalla sovrabbondanza della grazia di Dio: «E noi che siamo all’inizio di questa Quaresima – interroga l’arcivescovo Valentinetti – cosa vogliamo vivere? Una penitenza per la penitenza o una penitenza per la sovrabbondanza della grazia? La prima è pericolosa perché, se vissuta, è fine a se stessa e fa cadere nell’orgoglio. Allora, va assoggettata al mistero della gratuità di Dio e deve servire per ringraziare la benevolenza di Dio. Infatti, quest’ultima ci precede, sta sempre davanti a noi e ci ritrova anche nelle vie della penitenza. E allora, che queste vie della penitenza siano un dire grazie al Signore, “perché mi fai fare penitenza dietro di te, mi fai capire che posso stare un po’ più vicino a te, così come tu hai vissuto per 40 il digiuno nel deserto”. Allora capite bene che non servono tante penitenze esteriori, ma serve la penitenza del cuore contrito e umiliato, il sorriso a una persona antipatica, il fiore regalato a chi ci ha fatto del male, la gioia del dono in una situazione difficile. Tutto questo, inizia ad essere un esercizio di vita interiore, che fa guardare con molta più attenzione al mistero della grazia che, comunque, si riversa su di noi ed è il mistero della Pasqua verso cui stiamo camminando».