“La missione appartiene all’essere cristiani, ne costituisce l’identità”
"L’idea che noi siamo i cristiani – ribadisce il teologo don Gianni Colzani – e gli altri non lo sono e devono imparare da noi, è una frottola. È già avvenuto uno spostamento demografico della fede cristiana nel Sud del mondo, per cui dobbiamo accettare la fine di una missione occidentale e renderci conto che ormai esiste una missione universale"
«La missione appartiene all’essere cristiani e ne costituisce la dimensione identitaria. Perciò, nella misura in cui io sono discepolo di Gesù, sono missionario». Lo ha affermato sabato 17 novembre scorso il cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo dell’Aquila e delegato della Conferenza episcopale abruzzese e molisana alle Missioni, intervenendo alla Giornata di spiritualità dei Centri missionari delle diocesi d’Abruzzo e Molise, ospitata dal Centro Emmaus di Pescara, sul tema “Per una mentalità kerigmatica”.
Ad approfondire il tema della giornata è stata la professoressa Emanuela Buccioni, consacrata dell’Ordo virginum e membro della Commissione della regione ecclesiastica umbra per l’educazione, la scuola e l’università: «Il termine kerigma – esordisce l’esperta – deriva dal greco e significa “annuncio-proclamazione”, annuncio del messaggio cristiano rivolto ai non credenti fatto a voce alta, senza nascondersi. È Gesù che annuncia il Regno, ma in una seconda fase il soggetto diventa la Chiesa, sacramento di Gesù nella storia, che dovrà portare l’annuncio della morte e della risurrezione di Cristo. Gesù annuncia un Regno che giunge e i discepoli capiscono che il primo segno ad essere arrivato è stato Gesù stesso. Il loro annuncio si riferisce a Lui, alla sua Pasqua».
In questo contesto di annuncio si inserisce la missione, approfondita nel suo valore pastorale dal teologo Gianni Colzani, docente della Pontifica Università Urbaniana di Roma: «La missione è altrove – osserva lo studioso -, perché abbiamo in testa una distinzione tra Paesi cristiani e non cristiani. La missione vuol dire annunciare il Vangelo là dove il Vangelo non è arrivato. Una simile visione della missione è una sciocchezza».
Una presa di posizione forte, quella del teologo, spiegata nella trasformazione che oggi la missione sta subendo: «Noi – spiega don Colzani – stiamo sperimentando la fine di una missione occidentale. Ho avuto qualche migliaio di studenti, per la maggior parte africani, indiani, cinesi, giapponesi e vietnamiti e chiedevo loro “Quanti, nella tua comunità cristiana, vanno in chiesa e pregano?”. Da loro va il 70% della persone, a Milano va il 10%. Eppure, in tutto questo, noi siamo una comunità cristiana e loro una terra di missione! Fin quando? È già avvenuto uno spostamento demografico della fede cristiana nel Sud del mondo, per cui dobbiamo accettare la fine di una missione occidentale e renderci conto che ormai esiste una missione universale».
E se un tempo le domande che ci si poneva erano “Come si fa la missione?”, “Dove si fa?”, “Da parte di chi?”, oggi sono “Perché la missione?”, “Cos’è la missione?”: «Ed è un cambiamento profondo, radicale: «L’idea che noi siamo i cristiani – ribadisce il teologo – e gli altri non lo sono e devono imparare da noi, è una frottola. Quando il Vangelo dice “Un seminatore uscì a seminare”, il seminatore non era il missionario ma Gesù Cristo che andava a buttare il seme per strada, dove vi era poco terreno, dove la gente non era preparata. Ed ecco che dobbiamo renderci conto di questa profonda trasformazione della missione e, quindi, della Chiesa. Se quest’ultima e la missione sono profondamente unite, dobbiamo smettere di pensare che la missione sia uno strumento pratico per portare qualcosa d’altro, come la nostra civiltà, il nostro modo di pensare e le nostre convinzioni. Non è questo. La fede è portare il Vangelo del Regno. Credo che allora la cosa più semplice sia quella di renderci conto della profonda trasformazione che stiamo vivendo a livello di Chiesa, la quale non è semplicemente legata alla cultura occidentale, ma è l’opera di Dio».
La missione, come l’abbiamo in testa noi, è una teologia del missionario: «Andare, annunciare, battezzare, creare una comunità – aggiunge don Gianni Colzani – . Una missione non è uno strumento per la Chiesa, ma è il modo di essere di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. Dio è missionario, perché vive la propria vita e il proprio amore donandosi. In questa prospettiva, dobbiamo renderci conto che si cambia la missione se si cambia anche la Chiesa che, a sua volta, si cambia se si cambia il suo modo di comunicare la missione. Al centro della Chiesa non sta l’istituzione, ma sta un’esperienza di vita, non sta il sacramento dell’Ordine, ma quello del Battesimo, non sta il vescovo o il prete, ma sta il battezzato, il cristiano. E noi ci stiamo accorgendo che in Europa non siamo cristiani, mentre in Africa e in Asia iniziano a vivere il peso della seconda o terza generazione di cristiani, che vive un cristianesimo annacquato avendo i problemi di chi non ha vissuto una radicale conversione, ma ha imparato dai genitori, ha imparato attraverso la trasmissione di chiesa in chiesa, di famiglia in famiglia».
A questo si aggiunge un’altra problematica, che è la perdita dell’appartenenza: «La fede oggi – constata il teologo della Pontificia Università Urbaniana – non è più un problema comunitario, ma una sintesi personale. È il modo con cui una persona decide di organizzare la propria vita, è quello che mi fa star bene. Il Vangelo genera un equilibrio, una serenità, una pace psicologica, un dominio di sé. È un crede senza appartenere e la Chiesa diviene un di più, ma la fede non è ciò che ti dà tranquillità e sicurezza, ma è ciò che ti inquieta, è lo sforzo che fai per assomigliare a Gesù. L’appartenenza se n’è andata ed è rimasto un equilibrio psicologico, che ognuno costruisce a modo suo».
Da qui la trasformazione della Chiesa missionaria universalmente: «Non per portare la cultura occidentale e la Chiesa occidentale – precisa don Colzani –, con le quali abbiamo preteso di fare degli abitanti delle terre di missione degli estranei in casa loro, divenuti cristiani e quindi un’altra cosa, ovvero una privatizzazione della fede non più come quella di Gesù Cristo, ma come quella che penso io. La missione dev’essere, invece, una singolare presenza di vita da collocare là dove la popolazione si divide, dove avvengono gli scontri, dove c’è l’urto, la separazione, la prepotenza, dove ci sono persone che hanno perso la speranza e non sanno più a chi rivolgersi. Per dirla come Papa Francesco, c’è bisogno di una Chiesa in uscita, presente fuori dove la fatica è più evidente. La Chiesa è innanzitutto presenza del Vangelo, dell’amore e della pace, presenza di Dio».
E oltre che presenza, la Chiesa è anche epifania: «Ovvero la manifestazione – approfondisce il teologo – di quanto è importante credere e creare una comunità di fede che sia il luogo della verità, della pace, della gioia, della speranza, dell’entusiasmo, della bellezza, dell’arte. La fede si manifesta è epifanica, non può essere rinchiusa nella propria coscienza. La fede è presenza soprattutto negli ambiti difficili. Per dirlo ancora con le parole di Papa Francesco, “Esprimere la gioia di essere cristiani”. E poi un altro elemento fondamentale è l’annuncio del Vangelo del Regno di Dio».
In questo contesto sta avvenendo una profonda trasformazione: «Dobbiamo renderci conto – avverte don Gianni Colzani – che abbiamo davanti 20-30 anni in cui plasmare la fede della nostra popolazione in una luce universale missionaria apostolica fino in fondo, oppure non ci salveremo, perché oggi ci sono degli adulti non cristiani con la memoria cristiana – perché sono stati educati cristianamente – mentre tra 20-30 anni avremo degli adulti non cristiani e senza memoria cristiana. Allora, credo che in tutto questo abbiamo la responsabilità dell’annuncio della fede di oggi e di domani e poi la teologia della missione va centrata intorno al Vangelo del Regno di Dio, diffondendolo a partire da chi sta ai margini».
Nel corso della giornata non è mancata anche una testimonianza missionaria presentata da Padre Gianfranco Sana, missionario tra Ciad e Camerun per 33 anni: «Penso che abbia ancora un valore la missione concreta e attiva – afferma il missionario –. In quei Paesi il Vangelo lo abbiamo diffuso rispettando la tradizione orale, visitando le comunità e ridando loro uno stile che attirasse. La popolazione era solidale al suo interno, si aiutavano fra loro coltivando la terra. Noi missionari, in particolare, abbiamo cercato di aiutare i poveri invitando le comunità locali ad entrare in quest’ottica. Avevamo poi chiesto di segnalarci quanti avessero intenzione di diventare cristiani, che abbiamo inserito in un cammino di formazione catecumenale della durata di 5 anni fondato sull’oralità. Preparavamo anche i catechisti a trasmettere il Vangelo della domenica, distribuiti nei cinque anni liturgici: nel primo si trasmette il Vangelo dell’infanzia, nel secondo il Vangelo del Regno di Dio, nel terzo le parabole, nel quarto gli Atti degli apostoli e nel quinto anno la preparazione al Battesimo. Queste comunità sono diventate feconde, c’era condivisione, c’era più attenzione per i poveri e attiravano più gente e, tra questi, più gente che desiderava diventare cristiana. Nei primi cinque anni di permanenza in Ciad non ho battezzato nessuno, poi i cristiani sono arrivati a ricevere il battesimo dopo essersi preparati per cinque anni, attraverso il metodo dell’oralità, conoscendo il Vangelo e i testi dell’Antico testamento interiorizzandoli, perché la parola di Dio ricevuta la condividevano nella loro comunità. I cristiani e i catecumeni avanzavano così nel loro cammino di fede che ha dato i suoi frutti, visto che uno dei giovani che seguivo è attualmente missionario in Sierra Leone. Del resto, oggi il 95% dei missionari vengono dall’Africa, dall’America latina e dall’Asia».
Ha chiuso l’incontro l’intervento del delegato della Conferenza episcopale abruzzese e molisana alle missioni, il cardinale Petrocchi, secondo il quale la Chiesa, oltre che in uscita, dev’essere anche in entrata: «Esercitando – spiega il porporato – un magnetismo, un’attrazione per cui le persone sono portate a condividere l’esperienza di comunione perché ne colgono la bellezza e la rispondenza alle loro esigenze più profonde. Questo vuole dire che se la missione esprime l’identità del cristiano, chi non è missionario si danneggia e subisce un impoverimento della propria esistenza. Se siamo missionari, vuol dire che non possiamo non interrogarci sui modi in cui noi questa identità la esprimiamo».
L’arcivescovo dell’Aquila è intervenuto anche sul tema dei cambiamenti in atto nella Chiesa e nel mondo di fare missione: «Quando si parla di cambiamento – osserva il cardinale -, bisogna anche sottolineare gli aspetti che permangono, altrimenti non c’è cambiamento. Quando c’è qualcosa che varia, c’è sempre qualcosa che resta, se tutto si trasforma non c’è cambiamento e viene meno il processo evolutivo. È vero che la Chiesa, nella sua identità, è comunione per la missione così come è missione per la comunione. È vero che la Chiesa cresce guidata dallo Spirito nella comprensione del mistero del Signore e di se stessa ed è chiamata a cambiare, ma anche a custodire ciò che deve restare. Quindi anche nella missione ci sono aspetti che, teologicamente, vanno pensati in maniera in maniera diversa, ma ci sono anche altri aspetti che vanno riconfermati e riproposti. La missione ad gentes resta tale, ma va realizzata in versione nuova andando verso l’altro senza l’atteggiamento di orgoglio, presunzione e arroganza, ma con l’atteggiamento di servizio, di dare qualcosa che abbiamo ricevuto. Un dono così grande che non possiamo tenere per noi, ma va condiviso».
E la missione ad gentes non si svolge solo attraverso il partire, ma anche mediante l’accogliere: «Noi oggi – ricorda il cardinale Giuseppe Petrocchi – abbiamo la possibilità di testimoniare il Vangelo, ma anche di proporlo ai tanti che ci raggiungono nella nostra terra. Non abbiamo bisogno di andare da loro, però questa dimensione di universalità deve rimanere. La particolarità nella Chiesa è carica di universalità. Una Chiesa che non respira l’ossigeno dell’universalità, soffrirà d’asma e non riuscirà a fare tante cose importanti. La Chiesa particolare è quella in cui agisce una Chiesa universale, nella consapevolezza che ognuno di noi contribuisce all’evangelizzazione del mondo nella misura in cui compie la volontà di Dio nel luogo dove sta. Siamo missionari e contribuiamo all’evangelizzazione del mondo, nella misura in cui siamo un sì alla volontà di Dio, eco dell’amen di Maria».