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Insegnamento: “Lavoro pieno di senso, cambia le cose e i destini delle persone”

"L’atto riparativo - precisa la professoressa Veladiano - non sono i corsi di recupero o una segregazione della disuguaglianza, ma è l’atto comunitario, è il noi della scuola. E noi insegnanti di religione, siamo abituati a pensare che non ci si salva da soli"

Lo ha affermato la professoressa Mariapia Veladiano, nelle prolusione d’inizio anno accademico dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Pescara

La professoressa Mariapia Veladiano pronuncia la prolusione

È stata l’insegnante, preside e scrittrice Mariapia Veladiano ad inaugurare, lo scorso 25 novembre presso l’aula magna dell’Istituto Nostra Signora di Pescara, l’anno accademico 2021-2022 dell’Istituto superiore di Scienze religiose Giuseppe Toniolo collegato alla Pontificia Università Lateranense di Roma. Lo ha fatto tenendo una prolusione dal tema “Oggi c’è scuola. Un pensiero per tornare, ricostruire, cambiare”, davanti a decine di studenti che si stanno formando per essere futuri insegnanti di religione. E proprio a questi ultimi si è rivolta l’esperta, parlando dapprima di vocazione: «Siete arrivati da strade diverse – esordisce la professoressa Veladiano – a compiere questo percorso di studi. C’è chi ci è arrivato per scelta, chi per caso, ma la scuola ha il potere buono – che gli altri lavori non hanno – di riparare qualsiasi intenzione e qualsiasi modo in cui ci siamo arrivati. Questo perché è un lavoro pieno di senso e non sono tanti i lavori pieni di senso e la cui utilità è autoevidente».

E la scuola, secondo la scrittrice, ha anche un’utilità sociale: «In quanto – spiega – la scuola riscuote ancora una grandissima fiducia da parte degli italiani. Il rapporto Demos 2020, che indaga il rapporto tra italiani e istituzioni, dice che la scuola gode di molta fiducia da parte del 52% degli intervistati. Siamo al quarto posto dopo il Papa (al 67%), le Forze dell’ordine (al 59%), il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (al 58%), mentre i partiti sono al 9%. Come scuola siamo messi bene e percepiti come importanti. Il nostro lavoro ha un senso sociale e dal momento che sarete dei professori, l’insegnamento è un lavoro pieno di senso anche per voi, perché cambia le cose e, senza retorica, cambia i destini delle persone. Pensate al ruolo che ha avuto un buon insegnante o un cattivo insegnante nella nostra vita. Fare ogni giorno un lavoro che sappiamo essere utile e sapere di essere attesi, apprezzati, punto di riferimento per i giovanissimi, è qualcosa di assolutamente unico. Parlo di un lavoro, non di una missione, di un bel lavoro anche per l’insegnante per caso. Perché per lui, anche senza aver mai pensato di fare questo lavoro, essere in un ambito in cui le relazioni significative sono significative guarisce le sue motivazioni. La scuola è capace di guarire le motivazioni, di tenere insieme le motivazioni e riparare le vite di tutti, non solo dei ragazzi, ma anche di chi arriva ad insegnare. Io dico che gli unici controindicati a fare gli insegnanti sono le persone che non sopportano i ragazzi, che non sopportano il loro essere energicamente pieni di vita, confusi, sfidanti, difficili, oppositivi, curiosi, esigenti, sfidanti e incontentabili. Perché sono adolescenti e sfidanti e noi dobbiamo contenere questa loro caratteristica, che è loro. Non è un’anomalia, è esattamente una loro caratteristica. Si mettono e mettono alla prova, ci sfiniscono, ma questi sono. E se non ci piacciono, se ci fanno paura, se non sappiamo cosa fare, allora non è questo semplicemente non è il nostro mestiere. Questo non vuol dire che non si possa avere paura qualche volta, che non si possano trovare situazioni difficili. Questa è una cosa diversa. Ma noi non possiamo pensare di insegnare senza competenza culturale, competenza pedagogica e competenza umana. Non basta né il buon senso, né tirare ad arrivare alla fine della lezione».

Gli studenti presenti all’Istituto Nostra Signora di Pescara

Tutto questo perché, secondo la professoressa Veladiano, il lavoro dell’insegnante richiede di essere fortemente socializzato: «Questo – osserva – è in controtendenza rispetto a tutta una retorica, che trovate sui libri e sui giornali, in cui sembra che la soluzione di tutti i problemi della scuola sia l’intervento di un professore “magico” il quale – magicamente insediato su di una cattedra -, altrettanto magicamente incanti una o più classi. Il mito dell’insegnante “magico” è trasgressivo, nostalgico, appartenente ad un tempo un cui a scuola andavano solo quelli che don Milani definiva “Quelli che vengono a scuola per mietere diplomi”. Che non vengono a scuola per imparare, ma che sono già nati imparati. L’insegnante magico va bene nell’ultima classe di un liceo classico, scientifico, senza studenti dislessici, disgrafici, discalculici, depressi, demotivati, deprivati culturalmente. La deprivazione culturale non è solo la povertà (non avere libri), ma venire da famiglie che ritengono la scuola in modo strumentale, che non le danno nessuna vera importanza al di là del voto del diploma, che è una deprivazione culturale pazzesca. Ecco, se siete professori in una classe omogenea e non avete difficoltà, allora vi basterà essere un po’ magici. Ma in una classe normale di scuola, con ragazzi di recente immigrazione, studenti con disabilità gravi e altri iperattivi, non esiste l’insegnante magico che risolva i problemi. C’è solo un grande lavoro di squadra e di competenza che coinvolge gli insegnanti di religione. C’è una condivisione della programmazione, un confronto, un coinvolgimento dei genitori senza paura, dei collaboratori scolastici. E quando non basta, si allarga la socializzazione ai servizi, alle associazioni no-profit e a tutto un mondo che dobbiamo noi attivare e far circolare intorno alla scuola. Ma per fare tutto questo, occorre una grande motivazione».

A questo punto, la scrittrice si è chiesta da dove tragga origine la motivazione di un insegnante: «Non arriva dallo stipendio – precisa Mariapia Veladiano -, anche se ci sono grandi lamentele sugli stipendi, ma non arriva da qui. Esiste un rapporto curato dall’Ocse, il Rapporto Tales consultabile sul sito web del Ministero dell’istruzione e a cui l’Italia aderisce spontaneamente, che indaga l’origine della motivazione e il grado di soddisfazione negli insegnanti e nei dirigenti scolastici. E, in base al rapporto, queste due caratteristiche dipendono dalla possibilità di partecipare ai processi decisionali, dalla possibilità di risolvere problematiche con i ragazzi, dal non essere lasciati soli e dal lavorare in gruppo. Lo stipendio è l’ultima delle voci che viene dichiarata in Italia. La soddisfazione del fare con efficacia il proprio lavoro e la motivazione, dipendono dal non essere soli e dalla relazioni. Lo dice questo rapporto scientifico. Non essere da soli e lavorare insieme. Questo vuol dire che potete essere splendidi docenti, anche nel tempo».

Infatti, a detta dell’esperta, splendidi docenti si diventa: «Se non credessimo a questo – sostiene la scrittrice rivolgendosi agli studenti del Toniolo -, non crederemmo neanche che si può diventare bravi studenti. Potete essere splendidi insegnanti, cercando di essere quello che vi permette di esserlo, ovvero competenza pedagogica, condivisione di un progetto educativo, senso di appartenenza ad una comunità (nel caso degli insegnanti di religione le comunità sono due, quella scolastica e quella cattolica di appartenenza). Avete il diritto di trovare il posto giusto, spostandovi per trovare un contesto adatto a voi. Ho insegnato per 7 anni religione, facendolo per tre anni in un liceo classico, per un anno in un liceo scientifico e 3 anni nella scuola media. Cercavo un contesto in cui fare la differenza. Migrate in cerca di un posto giusto».

Successivamente, la professoressa Veladiano ha fatto una disamina della scuola al tempo del Covid-19: «C’è un prima e un dopo – sentenzia -. Chi vuole tonare indietro e negare la pandemia, non fa un buon servizio. È la scuola in cui opererete voi – ricorda, rivolgendosi sempre agli studenti -. A tal proposito ci sono i dati del Rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile), redatto dall’Istat a partire dal 2015. L’ultimo rapporto risale al marzo 2019 e registra che benché negli ultimi decenni ci sia stato qualche miglioramento, noi operiamo ancora in un contesto scolastico fortemente disuguale. La geografia di questi risultati, ripercorre esattamente la geografia del benessere socio-economico-culturale della nostra penisola. Chi nasce da famiglie più ricche e acculturate non riesce come chi nasce da famiglie che lo sono meno. E da un rapporto del 2020 emerge, ancor peggio, quanto la pandemia abbia acuito questa distanza. Infatti, su 8.300.000 studenti italiani 1 milione ha fatto la didattica a distanza poco, male o niente. Chi non aveva la connessione, chi non aveva famiglie capaci di attivare la connessione ai bambini più piccoli, chi non aveva nessuno a seguirlo, ma anche chi aveva un solo tablet per 4-5 fratelli».

Da qui la domanda dell’esperta: «Che scuola è quella in cui andrete? – s’interroga la docente e scrittrice -. Una scuola in cui la disuguaglianza e la povertà educativa sono aumentate ed è da qui che la scuola deve partire. Ecco perché non possiamo ignorare la pandemia, non si può sognare di tornare a essere come prima. In questo momento emerge come i ragazzi sono oppressi dai compiti di recupero. Fanno 4, 5, 6 compiti la settimana per recuperare il tempo perduto. È una follia, perché questi ragazzi hanno vissuto un trauma, che può diventare un’ombra che li precederà per tutta la vita se non saranno in grado di elaborarlo. Loro hanno visto un mondo rovesciato e non si sa se si raddrizzerà. È un passaggio epocale la pandemia. Si deve partire da un trauma avvenuto e da una povertà educativa minacciosa, ma perché la povertà e educativa e le disuguaglianze non possiamo tollerarle? Possiamo bocciare, ma è una scorciatoia indecente. Gli esclusi sono talenti non espressi della società e sarebbero esclusi da una mancanza nostra, a meno che non pensiamo che la disuguaglianza sia ontologica. La disuguaglianza porta solo danno e infelicità, oltre povertà, alla società. Questo è un momento di crisi e bisogna scegliere cosa va fatto e cosa no, andando a scuola con le idee chiare. L’atto riparativo non sono i corsi di recupero o una segregazione della disuguaglianza, ma è l’atto comunitario, è il noi della scuola. E noi insegnanti di religione, siamo abituati a pensare che non ci si salva da soli. C’è una scuola molto individualista intorno a noi, ma noi sappiamo che non è così. Io contesto sempre come ci sia sempre più una maggior richiesta di psicologi nella scuola. Non vorrei mai che un disagio venisse medicalizzato. Essere spaventati e tristi perché il mondo si è rovesciato non è una malattia, è una parte dell’umano e non c’è un solo posto al mondo in cui si affronti ormai più questo. L’unico posto in cui è tollerato il fatto che possiamo essere malinconici è la scuola e se adesso che lo siamo ci dicono che siamo malati, è finita. Una persona triste non è malata e sembra per tante persone tristi servano tanti psicologi. Invece, serve una bella classe, un noi riparativo. La Fondazione Agnelli, in una ricerca, ha dimostrato che nelle classi cooperative (nelle quali i ragazzi più bravi cooperano a ripassare le disuguaglianze) il divario si restringe, sono le classi che hanno risultati migliori, sono classi più felici e anche classi che garantiscono un maggiore accesso all’università. Questo perché le grandi disuguaglianze, all’interno di una classe, fanno esaltare i più bravi ma li fanno anche accovacciare, perché dietro non c’è nessuno. Se invece dietro non c’è nessuno, diventa una collaborazione al rialzo. E poi perché impariamo la meravigliosa arte di essere corresponsabili verso il prossimo, che è il compagno di banco».

Poi Mariapia Veladiano ha denotato come oggi la parola “salvezza” abbia trovato vita nuova nel vocabolario di tutti, anche dei ragazzi, rispetto al significato originario di una salvezza nella vita eterna: «Adesso – approfondisce – questa parola è entrata nel vocabolario giornalistico dei ragazzi. Salvare il mondo, gli animali, l’umanità. È una parola che noi amiamo perché è la radice del cristianesimo, in quanto noi ci riconosciamo fragili e creature. Questa parola è tornata. In passato l’abbiamo pronunciata con prudenza crescente, c’era un po’ di allergia, sembrava che l’umanità si salvasse da sola. Ma non è così e vediamo come la salvezza di cui tutti abbiamo bisogno, ha una coincidenza strepitosa con la salvezza biblica del Vangelo. È la salvezza dal potere malato di credersi Dio, di un uomo che ha costruito un mondo pensando di essere un Dio dissipatore, di poter fare quello che voleva. È la salvezza dall’idea di essere Dio noi stessi. Ce lo stanno dicendo i ragazzi di Greta. E noi dobbiamo dare ai ragazzi le competenze e quella fiducia assoluta di cui hanno bisogno, per poter cambiare e salvare il mondo. La cosa peggiore che potremmo consegnare ai ragazzi è una specie di realismo disincantato. Della serie “Il mondo va così”. Sapete quante volte l’ho sentito dai genitori e dai colleghi?!».

Infine la docente ha rivolto un pensiero anche sui ragazzi: «Non ho molto da dire su di loro, salvo una cosa – sottolinea -. Dovete andare a scuola – dice rivolgendosi ai futuri insegnanti di religione – con un pregiudizio fortissimo, un pregiudizio di fiducia. Tutti i ragazzi hanno diritto a un pregiudizio di fiducia. Fino a prova contraria valgono, sono bravi, possono migliorare, possono riparare. La loro vita ha senso fino a prova contraria. E quando vi daranno la prova contraria, non vi rassegnate perché non è vero, perché possono riprendersi. Un enorme pregiudizio di fiducia, che è il contrario di quello che la società ci sta insegnando. Viviamo nella società della sfiducia, non crede più nessuno a nessuno. Vanno avvolti di fiducia. E questo, entrando in classe, vuol dire chiamarli per nome, il potere del nome è fortissimo. Bisogna credere che qualsiasi cosa fanno non è irreparabile. Siamo in una società binaria. Mi piace, non mi piace; buono, cattivo; bello, brutto. Ma la binarietà non esiste. C’è la possibilità concreta di riparare. Il pregiudizio di fiducia, rappresenta la nostra possibilità di lanciarli nel mondo come persone che valgono sempre. La fiducia è esattamente il cuore della nostra umanità. Insegnanti pieni di fiducia e buon lavoro».

L’arcivescovo Valentinetti dichiara aperto l’anno accademico 2021-2022

Al termine della prolusione della professoressa Velandiano, è stato quindi l’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti, in qualità di moderatore dell’Istituto superiore di Scienze religiose Giuseppe Toniolo, ad inaugurare ufficialmente il nuovo anno accademico: «La dottoressa – commenta – ci ha aperto un mondo, ci ha spalancato l’interiorità dei ragazzi. Questa credo che sia un’operazione importantissima. E poi ci ha aperto la seconda interiorità, quella della scuola, e ancora l’interiorità della nostra realtà contemporanea, su quanto ci sia una cesura tra ciò che eravamo nel 2020, che siamo nel 2021 e che saremo ancora perché la pandemia non è assolutamente finita. Ci stiamo rallegrando perché in Italia, rispetto a quanto sta accadendo nel resto d’Europa, va ancora bene rispetto alla crescita dei contagi in corso. Ma questo è un ragionamento piccolino, perché questa dimensione di vita che è globale – che forse vive la prima esperienza di globalizzazione della malattia – non sarà guarita se non in un mondo totalmente rinnovato, totalmente nuovo e diverso da quello che abbiamo lasciato alle nostre spalle. Allora io credo che la lezione che ci arriva da questa prolusione per l’inizio dell’anno accademico (sono molto contento per la partecipazione affettiva ed effettiva degli studenti), è che dobbiamo stare sul pezzo, sul vero senso del nostro essere educatori e su cosa – sul serio – significa far venire fuori dagli studenti, dalla scuola e dalla società il meglio che queste realtà possano offrire. E noi siamo strumenti di questo percorso. Voi lo sarete se sarete insegnanti. A me è chiesto di esserlo dentro la Chiesa. A tanti altri dentro la storia di una società che certamente, credo, non abbia ancora afferrato perfettamente la dimensione della realtà. Per cui, come mediatore di questo istituto per mandato della Pontificia Università Lateranense, dichiaro aperto l’anno accademico 2021/2022 dell’Istituto superiore di Scienze religiose Giuseppe Toniolo di Pescara».

Padre Roberto Di Paolo, direttore dell’Istituto superiore di Scienze religiose Giuseppe Toniolo

È soddisfatto di questa ripresa post-pandemica degli studi il direttore dell’Istituto Toniolo, Padre Roberto Di Paolo: «Abbiamo ricominciato – racconta – con tanta paura e tanto coraggio. La scelta di riprendere in presenza, di scommettere su questo, si è rivelata una scelta vincente perché gli studenti vogliono e desiderano questo. Ricominciamo scommettendo sul futuro anche dell’insegnamento della religione come insegnamento trasversale». Sono 120 gli studenti iscritti a questo nuovo anno: «Provengono – spiega Di Paolo – soprattutto dalla fascia costiera abruzzese e molisana, con qualche presenza dall’entroterra. Sono studenti motivati e la loro età media è scesa. Abbiamo avuto un piccolo calo d’iscrizioni rispetto al passato, ma noi scommettiamo sempre sulla qualità. Non vogliamo essere un diplomificio compiacente, espressione orribile che rispecchia certe situazioni, ma vogliamo formare persone che siano in grado di educare, dare fiducia, collaborare e sviluppare competenze in sé e negli studenti che questi futuri insegnanti andranno a servire nelle scuole». Ad agevolare le iscrizioni all’Istituto superiore di Scienze religiose Toniolo, c’è la possibilità di trovare più facilmente uno sbocco lavorativo come docente di religione. Un insegnamento, quest’ultimo, ancora in attesa di ricevere un riconoscimento importante: «Prima della pandemia – ricorda il direttore dell’Istituto Toniolo – si era quasi arrivati all’assegnazione di una specifica classe di concorso. Quando avverrà non lo sappiamo, però puntiamo ad un riconoscimento da parte dello Stato affinché anche la laurea in Scienze religiose, abbia lo stesso valore di quelle di altre discipline assumendo una dignità nazionale».

About Davide De Amicis (4358 Articles)
Nato a Pescara il 9 novembre 1985, laureato in Scienze della Comunicazione all'Università degli Studi di Teramo, è giornalista professionista. Dal 2010 è redattore del portale La Porzione.it e dal 2020 è direttore responsabile di Radio Speranza, la radio della Chiesa di Pescara-Penne. Dal 2007 al 2020 ha collaborato con la redazione pescarese del quotidiano Il Messaggero. In passato è stato direttore responsabile della testata giornalistica online Jlive radio, ha collaborato con Radio Speranza, scritto sulla pagina pescarese del quotidiano "Avvenire" e sul quotidiano locale Abruzzo Oggi.
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