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San Giuseppe. Verginità e matrimonio

Il matrimonio di Giuseppe e Maria è stato certamente singolare a motivo della “prole” divina in esso accolta, ma sommamente utile per tutti gli sposi cristiani per penetrare l’essenza del matrimonio.

Se in un precedente articolo si è dimostrata la necessità del matrimonio tra Maria e Giuseppe, in relazione alla paternità del Custode del Redentore, è ora nostra intenzione affrontare la questione dell’essenza, e validità, di quel matrimonio, a motivo della sua utilità per comprendere la natura di un’istituzione dalla quale dipende le sorte di molte famiglie.

Pensando al legame tra la Madre di Dio e Giuseppe, il pensiero inciampa inevitabilmente su una questione: come si può, perché si deve, conciliare la verginità con il matrimonio? Sia Luca che Matteo sono espliciti in merito: Gesù è stato concepito verginalmente per opera dello Spirito Santo; ciò è avvenuto nell’istituzione del matrimonio (Lc 1,26ss; Mt 1,18). È possibile conciliare la verginità con il matrimonio? Sulle prime verrebbe da rispondere che non sia possibile, e soprattutto desiderabile, per noi comuni mortali; al massimo, sarà cosa da santi!

Ma volendo indagare il problema, ci viene in aiuto la dottrina di san Tommaso e quella di Agostino. Partiamo dalla quaestio sulla verginità. L’interpretazione del Dottor Angelico poggia sul fondamento che Maria emise il voto di verginità assieme a Giuseppe. Partendo dal presupposto che la «verginità dovette risaltare in modo speciale nella Madre di Dio» e che «le opere di perfezione sono più lodevoli se solennizzate con il voto», San Tommaso sostiene che «fu conveniente che la sua verginità fosse a Dio consacrata con un voto» [1]. L’evangelista Luca è esplicito: «L’angelo Gabriele fu mandato a una vergine sposata a un uomo, di nome Giuseppe, della casa di Davide»; e, dunque, la domanda di Maria: «Come avverrà questo? Non conosco uomo», non è riferita al solo periodo di “fidanzamento” (sarebbe anche scontato in questo caso!), piuttosto esprime un proposito verginale perpetuo. Come conciliare, allora, tale voto perpetuo di Maria con il matrimonio – si chiede san Tommaso? Si sa, infatti, che «i coniugi sono tenuti a vicenda al debito coniugale, che impedisce la continenza, perché uno non può votare la continenza senza il consenso dell’altro. Se vota, pecca» [2]. Poiché Maria si sposò, san Tommaso deduce che Ella non votò la verginità in modo assoluto, prima di sposare Giuseppe, benché l’avesse «in desiderio», rimettendo invece il suo proposito alla volontà di Dio; ella votò, perciò, la sua verginità in modo condizionato: «se Dio vuole» [3]. Una volta sposata, come appunto richiedevano le usanze del tempo, «quando ebbe capito che ciò era a Dio accetto, “assieme a lui”, ossia con Giuseppe, e prima dell’annuncio angelico, Maria emise il voto di verginità in modo assoluto» [4]. A riguardo, scrive san Giovanni Paolo II: «Si può presupporre che tra Giuseppe e Maria, al momento del fidanzamento, vi fosse un’intesa sul progetto di vita verginale. Del resto, lo Spirito Santo, che aveva ispirato a Maria la scelta della verginità in vista del mistero dell’Incarnazione e voleva che questa avvenisse in un contesto familiare idoneo alla crescita del Bambino, poté ben suscitare anche in Giuseppe l’ideale della verginità» [5].

Dunque, Maria non fu “predestinata” alla perpetua verginità come un burattino nei piani di Dio, tantomeno lo fu san Giuseppe subendo, addirittura, la condizione di verginità della sua sposa. Bisogna ritenere, piuttosto, che in vista del loro contributo al mistero dell’Incarnazione del Verbo, Giuseppe e Maria ricevettero la grazia dello Spirito Santo di vivere insieme il carisma della verginità e il dono del matrimonio. Essendo la verginità donazione a Dio (cfr 1Cor 7,32), se Dio ha voluto il matrimonio verginale di Maria e Giuseppe, ciò fu perché si aiutassero reciprocamente a donarsi insieme a Dio. Il dono è la prospettiva dell’Incarnazione: Maria è per Giuseppe, e viceversa; entrambi, per Gesù. L’espressione «sacro vincolo di carità», con la quale Leone XIII designa il matrimonio dei due nella preghiera A te, o beato Giuseppe, è la definizione che meglio rende un vincolo la cui natura è nella sostanza il reciproco dono sponsale di sé.

A questo punto resta da rispondere alla domanda conseguente: è valido un matrimonio in cui ci sia il «sacro vincolo di carità» ma manchi l’unione sessuale per libero e reciproco consenso?

Non potendoci dilungare, si prenda atto che ripetute volte San Tommaso ripete il principio secondo cui non si deve negare che siano marito e moglie coloro che non si congiungono con il corpo, ma si legano insieme con l’«indivisibile unione degli animi», diciamo più propriamente con il sacramento. Nella Summa Teologica, san Tommaso distingue anche l’unione coniugale dall’unione sessuale: è fondamentale distinguere nel matrimonio l’unione coniugale, che è il suo essere, dall’unione sessuale, che appartiene, invece, alla sua azione. San Tommaso è chiaro: «Il matrimonio non consiste essenzialmente nell’unione sessuale, ma nell’unione del marito e della moglie in ordine all’atto sessuale, e a tutti gli altri compiti che derivano a entrambi, in quanto viene loro conferito il dominio reciproco riguardo a quell’atto. Ora è proprio questa unione che viene chiamata unione coniugale». Le affermazioni di Tommaso riecheggiano quelle di Agostino secondo cui il matrimonio non consiste principalmente nell’unione dei corpi, ma nei «volontari affetti degli animi». I principi esposti non rappresentano eccezioni, escogitate dai Dottori per giustificare la validità del matrimonio di Maria e Giuseppe, ma riguardano il matrimonio in sé e per sé. Ne segue che entrambi concordino, in sostanza, con quanto sostenuto da Agostino quando scrive: «Non si deve perciò negare che siano marito e moglie coloro che non si congiungono con il corpo, ma si legano insieme con i cuori». In sostanza, nel matrimonio cristiano il primato spetta alla carità coniugale [6].

Da quanto detto emerge come per entrambi i Dottori la verginità sia comune a Maria e Giuseppe per reciproco consenso, secondo la volontà di Dio; e il rispettivo matrimonio sia considerato vero perché fondato sul «sacro vincolo di carità», ovvero su tutti i “sì” pronunciati – insieme – per portare a compimento il mistero dell’Incarnazione. San Giuseppe è stato fedele a questi “sì”, lungo tutta la sua vita, vivendo il dono di sé a Dio, a Maria e al Figlio divino Gesù. Di fatto è necessario sottolineare come la chiesa apostolica esprima la sua fede nella castità di san Giuseppe in due titoli delle sue litanie: Giuseppe castissimo, e Custode dei vergini; e riconosca san Giuseppe vero sposo di Maria, definendolo «vir Mariae» (Mt 1, 16). Si aggiunga che nel Magistero della Chiesa san Giuseppe è sempre presentato come modello esemplare del «dono sponsale di sé»; egli fu sposo degno di Maria. Il 19 marzo 1987, a Civitavecchia, al termine di una messa celebrata nel giorno dedicato a san Giuseppe, rivolgendosi a molti giovani san Giovanni Paolo II disse: «San Giuseppe sposo della Vergine Maria; così viene chiamato costantemente nella tradizione della Chiesa e della Sacra Liturgia. Cosa vuol dire sposo? Sposo è colui che è consapevole del dono. […] Abbiamo visto come Giuseppe sia stato consapevole del dono divino. [..] Questa consapevolezza crea una nuova mentalità, un nuovo atteggiamento, un nuovo comportamento, quando vediamo il dono nella creazione e soprattutto nelle persone. Così, san Giuseppe ha visto pienamente […] il dono della persona di Maria, il dono ineffabile della persona del suo Figlio divino».

Il matrimonio di Giuseppe e Maria è stato certamente singolare a motivo della “prole” divina in esso accolta, ma sommamente utile per tutti gli sposi cristiani per penetrare l’essenza del matrimonio: «quell’amore nel quale l’uomo-persona diventa dono e -mediante questo dono – attua il senso stesso del suo essere e del suo esistere» [8].

[1] S.Th., II-II, q. 88, a.6; III, q.28, a.4.

[2] Suppl., q.48, a.2 ad1; 64, a. 4, c.

[3] Commentaria in Evangelio S.Matthei et S.Joannis, I, ed. 4, Taurini 1925, p.19.

[4] S.Th., q.28, a.4.

[5] Cfr. Redemptoris custos n.7

[6] Sermo 51, 13,21: PL38,344.

[7] Per un approfondimento su questa parte, cfr: Tarcisio Stramare, San Giuseppe. Il custode del Redentore, nella vita di Cristo e della Chiesa, Editrice domenicana italiana, 2021, capp. 13-14-16.

[8] GPII, Allocuzione, in «L’osservatore Romano», 17 gennaio 1980.