Che storia: vacanza da Dio!
Prendendo in giro i quattrocento profeti di Baal, che saltavano e si tagliuzzavano la pelle nel vano tentativo di spingere un Dio inesistente fuori dal suo nulla, il sarcasmo rovente di Elia li sferzava: «Gridate con voce più alta, perché egli è dio! Forse è soprappensiero oppure indaffarato o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà» (1Re 18, 27). Il povero profeta, che ancora non immaginava che corsa avrebbe avuto da fare subito dopo lo schiacciante trionfo riportato di lì a poco contro i profeti pagani, non immaginava probabilmente neppure che tutte le sue espressioni sarebbero presto o tardi rientrate nel linguaggio religioso dell’Israele “ortodosso”, e che proprio del Dio vivo e vero si sarebbero correttamente predicate quelle cose che egli aveva irriverentemente attribuito a un idolo “falso e bugiardo”. Basta ricordare che la venerabile tradizione che ha composto, raccolto e inoltrato i testi sacri non ha disdegnato di raccogliere in un salmo questa imprecazione: «Svègliati, perché dormi, Signore? / Dèstati, non ci respingere per sempre. / Perché nascondi il tuo volto, / dimentichi la nostra miseria e oppressione?» (Sal 44, 24-25). Altri tempi? Non deve averla pensata così Benedetto XVI, che visitando il Lager di Auschwitz-Birkenau, per ben due volte ha ripetuto le parole di quel salmo: «Svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l’uomo!».
Dio dorme? Dio dimentica? Dio fa viaggî e si prende ferie? Sembrerebbe di sì, a sentire Joan Osborne, sui cui testi ci siamo già intrattenuti, la quale non esclude che Dio sia «just a stranger on the bus, trying to make his way home». Irriverente cantante di un’epoca senza Dio? O il problema è altrove? Con due soldi di catechesi uno potrebbe azzardarsi a dire che se l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio e se le vacanze sono per lui tanto importanti che perfino il Magistero pontificio si sente interpellato a esprimersi in merito, forse non è del tutto azzardato pensare che anche Dio abbia le sue ferie, o qualcosa del genere.
È impressionante, allora, constatare quante volte Gesù parla, nei suoi incantevoli racconti, delle vacanze di Dio: «È come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi…» (Mc 13, 34). Oppure: «Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi talenti» (Mt 25, 14). E ancora: «Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi ritornare» (Lc 19,12). Le figure evocatrici di Dio sono non solo in movimento, ma in un movimento che le porta a essere assenti, e “vacanza” vuol dire precisamente “assenza”. Se Gesù dice che Dio ha delle vacanze, è perlomeno probabile che nella vacanza sia rintracciabile un “luogo teologico”, ossia una situazione, un evento, un concetto in cui l’intelligenza del mistero di Dio si fa particolarmente chiara. Nulla di più lontano dall’idea dell’onnipotenza, se pensiamo al senso di spossatezza con cui mediamente si torna dalle vacanze: sarà il “dies tædii”, non il “dies iræ”, il giorno del giudizio, se Dio avrà l’entusiasmo che noi abbiamo tornando dalle vacanze ai nostri lavori, al tran-tran di sempre, alle questioni irrisolte che abbiamo lasciato in sospeso partendo.
Dio, però, non tornerà in quel giorno ad alcun tran-tran, a giudicare dagli innumerevoli versetti in cui si attesta l’ansia divina di rinnovare e restaurare: Dio s’è proposto di realizzare, al suo ritorno, un qualcosa di radicalmente innovativo e di radicalmente originario, in cui addirittura ci sono «cieli nuovi e terra nuova», mentre «il mare non c’era più» (Ap 21, 1). L’immagine di rivoluzione cosmica adoperata dall’agiografo delinea senz’altro quello che i teologi chiamano “un orizzonte escatologico”, ma sarebbe riduttivo e fuorviante pensare che “escatologia” indichi esclusivamente “la fine del mondo” come un’immensa calata del sipario su tutte le cose. A questo arriveremo a breve, ma non prima d’esserci concentrati un po’ non sulla fine della vacanza, bensì sulla vacanza stessa. Vacanza di Dio è tutto il tempo della storia, in cui il potere (d’acquisto) dell’uomo della parabola viene amministrato da persone che dichiarano di averne ricevuto l’incarico e l’autorità: il dato teologicamente interessante non è la semplice allegoria, ma il fatto che Gesù prestasse così tanta attenzione a tratteggiare coerentemente nei suoi racconti le linee e le dinamiche di un mondo in cui le tracce di Dio sono per molti sbiadite, per molti altri addirittura invisibili, per qualcuno evidenti fino all’ossessione. Solitamente si ritiene che il mondo “antico” (dove “antico” sta approssimativamente per tutto quanto precede il siècle des lumières) sia un’ingenua bambagia in cui gli uomini credono che Dio sia lì come i bambini che esista Babbo Natale; testi antichissimi, raccolti proprio da uomini religiosi, mostrano che fin dall’origine dell’era cristiana i seguaci del Nazareno seppero farsi carico della sua visione del mondo – visione in cui Dio è da ricercare in un’instancabile vita di preghiera, ma in cui pure quello stesso Dio è già inspiegabilmente lontano.
Inspiegabilmente, certo, perché mai Gesù scende fino al dettaglio della causa del viaggio della figura divina (la versione lucana accenna al titolo regale, ma con questo il viaggio potrebbe intendersi più come “missione del Figlio nel mondo” che come assenza di Dio): Gesù prende semplicemente atto del fatto incontestabile che l’azione di Dio appare perlopiù mediata da creature, e del resto si tratta di un’ipotesi teologica ben più ragionevole e accettabile del carro di Apollo, col quale la divinità porterebbe personalmente in giro la lucerna del mondo umano.
Sicché, Dio è in vacanza, e il suo potere continua a circolare tra le mani di alcuni cui egli l’aveva lasciato: siamo facilmente portati a intendere i talenti e le mine come semplici qualità dell’uomo (grazia creata), e di lì prendiamo le mosse per il solito fervorino a tema morale, mentre nel contesto della vacanza di Dio essi indicherebbero piuttosto il mistero della permanente presenza di Dio nonostante la vacanza (grazia increata). Sulle ragioni della vacanza alla teologia non resta che fare congetture: gran parte degli autori inclina a pensare che l’assenza di Dio dal mondo (ovvero l’ottusità dell’uomo nel percepirne la presenza) sia semplicemente un effetto del peccato umano – e che quindi sia qualcosa di atavico ma di non risalente alla volontà del Dio creatore. Semplice e lineare: se Dio ha creato l’uomo perché vivesse in comunione con Dio stesso non abbiamo motivo di pensare che di punto in bianco lo avrebbe piantato in asso in un mondo largamente secolarizzato senza un motivo.
Se questo motivo non ci è noto che per illazioni teologiche (comunque largamente sensate), questo è il punto in cui possiamo riprendere quello che dicevamo sull’orizzonte escatologico: come infatti l’evento del peccato è a ridosso del momento dell’origine, ma non vi si identifica, così anche l’escatologia ha a che fare con “il giorno del giudizio”, ma senza identificarvisi. Tornando al linguaggio assoluto del Vangelo, in un episodio dai temi analoghi: «Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà nel giorno che non pensa e nell’ora che non sa…» (Lc 12, 45-46). La vacanza del “padrone” è indefinitamente dilazionata con il bellissimo verbo greco “chronìzein”, contenente la radice di “tempo”: il fatto è che proprio nello spazio soggettivo-psicologico della distrazione del servo si apre all’improvviso, in un momento qualunque, l’istante della verità – quello in cui si rivelerà che il potere del padrone lontano, la sua misteriosa presenza, non stava producendo in lui il suo effetto, proprio per l’aver dismesso la disciplina dell’attesa fiduciosa (quello che nel linguaggio della parabola evocano “i banchieri”), un contesto tale per cui il potere di Dio possa spiegarsi anche senza sforzi particolarmente audaci.
Ecco perché Benedetto XVI, visitando il 28 maggio 2006 i Lager nazisti, non poté che parlare della vacanza di Dio: «In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa». Benedetto sapeva bene, però, che è su quanti non attendono (più-ancora) il ritorno di Dio dalla vacanza allenandosi pazientemente a riconoscere i segni del suo potere misterioso, disseminati qua e là, che l’ora della verità incombe col minaccioso livore di un temporale: «E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio – affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell’egoismo, della paura degli uomini, dell’indifferenza e dell’opportunismo».