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Il tempo dell’incenso

Analizzando una falsa profezia sul Natale alla ricerca della sua variabile “X”

«“Christmas” begins with “Christ”»: con questo slogan, o con varianti simili, molte iniziative ecclesiali di tutte le confessioni cristiane ribadiscono fermamente che non è possibile celebrare un Natale senza Cristo. Quello che fino a un secolo fa non era neanche pensabile (ossia l’indipendenza del Natale come fenomeno sociale dalla celebrazione confessionale e cultuale della nascita di Cristo) è diventato sempre più, nelle ultime decadi, l’insidia maggiore in cui la cristianità incorre, nel suo rapporto col mondo. Rapporto che è sempre stato in un certo senso un braccio di ferro, ma che soprattutto i mass media hanno armato di una potenza erosiva mai vista prima, sul piano dei significati: si moltiplicano le immagini, le parole vengono progressivamente sterminate.

Così anche all’espressione “Santo Natale” si preferisce un vago “Buone feste”, ritenuto meno “compromesso” con gli esiti religiosi di quella piovra stritolacoscienze che in ultima analisi sarebbe la Chiesa (quella Cattolica in specie). Quest’uso implica l’ignoranza del significato religioso e insieme civile del latino “festus”, e produce il progressivo inaridimento della varietà del vocabolario (questione tutt’altro che irrilevante, sul piano religioso e su quello sociale). Non va meglio a chi cerca di evadere nell’anglismo “have a nice holiday”, perché “holiday” sta precisamente per “giorno santo”, ossia per il “dies sanctificatus” che «illuxit nobis» in Cristo.

In quest’ottica, Christmas” è certamente parola proibita, perché la sua etimologia porta in sé non soltanto la radice piena del nome del Redentore, ma anche quella anglicizzata e poi limata del confessionalissimo “messa” (dal latino “missa” all’inglese antico “mæsse”, all’inglese “mass”). Chi pensa di ovviare sostituendo l’aborrito nome confessionale con la dicitura “Xmas” dovrebbe invece sapere che quella “X” è un’abbreviazione della parola greca per “Cristo”, consistente nella sua prima lettera. Insomma, non se ne esce, e malgrado le disperate pubblicità che certi pennivendoli cercano di farsi, pubblicizzando i delirî bergamaschi di presepi con due san Giuseppe accanto al Bambino, il Bambino proprio non sembra starci a farsi scrollare via dalla sua festa.

Considerando però che viviamo in un mondo in cui solo un’infima minoranza degli alfabetizzati conosce il greco antico (e in cui pochi più di quelli s’interessano al significato delle parole), la dicitura “Xmas” si fa sociologicamente molto interessante: la “X” indica infatti per tutti l’esemplificazione di una variabile algebrica, e quindi che il nome di Cristo sia considerato “una variabile della funzione del Natale” (qualunque cosa voglia poi dire “-mas”) è tutt’altro che privo d’interesse.

Nell’autunno del 1971 John Lennon scriveva, con la moglie di quei giorni, Yoko Ono, una canzone natalizia destinata a diventare uno dei più grandi classici contemporanei di Natale: il titolo aveva scelto “la via della variabile” – “Happy Xmas” (qui trovate testo e traduzione). Anzitutto vale la pena ricordare che solo per l’ironia della storia quella melodia è diventata, per le generazioni successive, una delle più caratteristiche dell’opera di John Lennon: chiunque ascolti il tradizionale brano folk “Stewball (di gran lunga anteriore al 1971) vi ravvisa immediatamente ben più di una vaga assonanza con la canzone di Natale di John Lennon.

A parte il plagio, il testo merita di essere considerato attentamente: il lessico e il frasario richiamano costantemente quelli della tradizione cristiana, e di primo acchito non si direbbe neppure che li spoglino di significato. La canzone si apre infatti con una constatazione “d’Avvento”, che invita a ciò che i cristiani chiamano “esame di coscienza”: «And what have you done?». Nella strofa finale lo stesso tema tornerà, con la significativa modifica della seconda persona (singolare/plurale) in prima plurale: «And what have we done?». Nella constatazione dello scorrere del tempo si avverte l’esigenza che questo scorrere non sia un asettico avvicendarsi di date, ma produca un reale rinnovamento, un cambiamento percettibile: ecco cosa darebbe al termine “hope” (che torna più di una volta) un contenuto non debolissimo. L’oggetto della speranza è duplice: da un lato il divertimento (“…you have fun”) dato dal clima raccolto delle giornate natalizie, in cui tutti, benché diversi, si ritrovano insieme; dall’altro la fine della guerra, che è implicitamente legata al primo aspetto, ma che non dipende mai, direttamente, dal verbo “sperare”.

Come mai? Come mai il divertimento si spera e la pace (peraltro mai menzionata direttamente in questa canzone) no? Probabilmente perché era il 1971, e la guerra incendiava il Vietnam già da sedici anni: un po’ troppo per accontentarsi di dire “speriamo che finisca”. Lennon e la Ono accentuano vistosamente la componente volontaristica, quanto all’esito della guerra: «Let’s stop all the fight!», scrivono i due, perché «war is over if you want it, war is over now». Il testo del controcanto, significativamente affidato a voci bianche, è davvero la tesi forte della canzone, frutto di due menti inquiete ed esasperate da un clima d’ingiustizia e di cinismo diffuso ovunque sulla faccia del pianeta.

Ha veramente di che riecheggiare il canto natalizio degli angeli a Betlemme, questo estratto del testo: il contenuto brilla nelle emozioni dell’ascoltatore come vera buona notizia anzitutto in ragione dell’indicativo presente – che è il tempo del Natale. Non più in là, non domani: stanotte è la salvezza, oggi è finita la guerra, ora. L’indicativo pare tuttavia subordinato a una condizione ben più esplicita e unilateralmente vincolante del “bonæ voluntatis” angelico: questo è infatti anzitutto riferito alla volontà salvifica di Dio, ragion per cui certamente l’uomo che non accoglie il canto angelico può privarsi della gloria di Dio e della propria pace, ma non può annullare l’evento della salvezza che Dio comunque decide di donare, in Cristo.

Ecco dove l’ambiguità del testo di Lennon e della Ono si rivela in tutta la sua fragilità: la “X” di “Xmas” è incapace di sorreggere così grandi promesse, promesse di vero cambiamento, se non è l’iniziale del nome di Cristo. E come potrebbe esserlo? Chi conosce un tantino Lennon sa bene che il 1971 era lo stesso anno il cui era stato pubblicato il vero manifesto del leader dei Beatles – Imagine – e che in quella canzone l’artista invitava gli ascoltatori a rasserenarsi anzitutto al pensiero che «there’s not heaven […] above us only sky» («non c’è paradiso […] sopra di noi solo il cielo»). A nessun titolo dunque prometteva la “pace in terra”, Lennon, che aveva programmaticamente rinnegato la “gloria in cielo”: difatti mancavano più di tre anni alla caduta di Saigon, che avrebbe chiuso il sanguinoso conflitto del Vietnam (non senza minare a fondo gli immaginarî di generazioni e generazioni in Oriente e in Occidente).

Un falso profeta, Lennon, come tutti quelli che preannunciano futuri rosei in cui Dio non avrebbe alcuna parte. L’ascoltatore medio, tuttavia, non si accorge di trovarsi alle prese con un ammannitore di ideologie nate vecchie, e commenta laconico: «Peccato che non si sia avverato, ma la sua utopia resta comunque grande!». Sì, perché per il seguace dell’autore di Imagine l’importante non è che il messaggio del profeta sia vero, ma che sia grande. Ora, grande lo è, in un certo senso, ma vero non può esserlo, giacché è il profeta stesso che non osa dichiarare la verità oggettiva del suo messaggio, limitandosi a ribattere che, quando tutti facessero come dice lui, l’utopia non sarebbe più un’utopia. Troppo facile, così: se Cristo avesse subordinato la verità del cristianesimo al numero dei suoi adepti, una messa in una cattedrale stracolma varrebbe molto di più di una celebrata da un solitario eremita in una grotta, ed è evidente (a chi conosce la rivoluzione permanente del cristianesimo) che così non è.

Ora, per chi va appena al di là delle “mitiche” foto di Lennon e della Ono è subito evidente che non solo la guerra non sarebbe cessata per la loro canzone (scopiazzata), ma che neppure era cessata nelle loro vite, la guerra: Yoko e John si sposarono nel 1969, ma si frequentavano già da un paio d’anni, e questo costò a John il divorzio da Cynthia, prima moglie. Da parte sua, Yoko aveva già collezionato due matrimonî, due divorzî e una dichiarazione di nullità. Non si tratta di stupido gossip, perché oltre a essere idealmente rivolta al conflitto indocinese, Happy Xmas è stata dedicata ai due figlî di John e Yoko, che non vivevano coi genitori. La cosa non finì lì, perché Yoko influì tanto su John da risultare presto un fattore non indifferente dello scioglimento dei Beatles; i due si diedero presto all’alcolismo e divennero eroinomani prima ancora della fine della guerra in Vietnam (d’altronde, la separazione era arrivata già nel 1973!).

Inutile dilungarsi nella trafila delle amanti, degli amanti, delle gelosie e dei ricatti: sta di fatto che la profezia è sottoposta da sempre alla verifica della concretezza – perché lo Spirito di Dio è terribilmente concreto, mentre le false profezie crollano come castelli di carta senza che nulla ne resti. Il fatto che il Natale di Lennon e della Ono non sia il tempo dell’incenso dice e argomenta, a suon di più o meno drammatici disagî personali, quanto pesa un cielo vuoto. Con la mente bruciata dall’LSD, i figli dei fiori non avevano più modo di prendere sul serio la terribile profezia di Nietzsche: «Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? […] Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini?» (La Gaia scienza, 125).

Davvero è inesauribile la dialettica tra guerra e pace nell’àmbito del cristianesimo. Cristo è infatti colui che viene profetizzato come «segno di contraddizione» e che rivendica per sé gli strumenti della spada e delle divisione (Mt 10,34-37; Lc 12,51-53). D’altro canto Leone Magno poté scrivere che «il Natale del Signore è la nascita della pace, perché così dice l’Apostolo: “Egli è la nostra pace, colui che dei due ha fatto una cosa sola”, giacché sia il giudeo sia il gentile “per mezzo di lui abbiamo accesso, in un solo Spirito, al Padre”» (Sermoni sul Natale, 6,5).

Non cessano le guerre, nel mondo dei cristiani, Gesù anzi affermò una qualche misteriosa necessità (Mt 24,6-7) che ve ne siano; la pace del Natale, difatti, è una pace che nessuno può togliere, a quelli che accolgono il canto angelico. È tempo dell’incenso, il Natale, perché Cristo è il divino incenso mandato a bruciare nella guerresca fornace mondana: Xmas” senza “Christ” è dunque l’oscuro fumo che il carbone mondano, da solo, inevitabilmente produce. Il Natale senza Cristo è la tirannia impotente dell’egolatria umana, che si promette ciò che non potrà mai darsi, destinandosi a un’inesorabile frustrazione. Il Natale senza Cristo è un’efficace immagine dell’inferno, come il Natale di Cristo è la sintesi e la caparra dell’accesso al paradiso.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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