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Benedetto XVI e Celestino V: lasciare il pontificato per «inadeguatezza fisica»

Ultimamente il nome di Celestino V è stato spesso pronunciato in relazione a quello del nostro pontefice emerito Benedetto XVI. È sufficiente digitare i loro nomi su un motore di ricerca per essere sommersi da link che rimandano a testate, blog e post nei quali il paragone è espresso in maniera più o meno esplicita. Ciò che accomunerebbe i due pontefici, divisi da oltre settecento anni di storia, sarebbe «il gran rifiuto», espressione di dantesca memoria (Inferno III,60) e di triste impatto per entrambi. Forse è il caso di conoscere un po’ meglio il papa eremita prima di stabilire se esistono davvero somiglianze cogenti tra lui e il nostro Benedetto.

Sfatiamo innanzitutto il mito per cui i versi di Dante (Inferno III,58-60) si riferirebbero senza ombra di dubbio al papa abruzzese. Dante non indica espressamente il nome di quelle anime condannate a un totale oblio (tanto da essere private anche del nome e dei lineamenti che le renderebbero riconoscibili) per aver rifiutato ogni coinvolgimento, sociale ed etico, nelle trame della storia. Nell’anima che «fece per viltade il gran rifiuto», i commentatori hanno riconosciuto di volta in volta Esaù (che rinunciò alla primogenitura per un piatto di lenticchie, vd. Gn 25,29-34), Ponzio Pilato (che mandò a morte un innocente per paura di risultare nemico all’imperatore, vd. Gv 19,12), Romolo Augustolo (con cui ebbe fine l’Impero Romano d’Occidente) o altri personaggi cronologicamente più vicini al poeta. La critica più recente (da Sapegno in poi) propende per lasciare il personaggio nel suo anonimato: non uomo singolo dunque, ma emblema della condizione di tutte le anime ignave.

Ma né è questa la sede adatta a discutere questioni filologico-interpretative – con le quali già molti si sono scontrati senza trovare una soluzione definitiva –, né è lecito ignorare una tradizione che dura da tanti secoli e si è così radicalmente impressa nell’immaginario comune. D’altra parte fu proprio il figlio di Dante, Jacopo Aligheri, scrivendo subito dopo la morte del padre, ad alimentare la convinzione che l’anonimo ignavo fosse Celestino V, il quale «per viltà di cuore … il grande uficio apostolico rifiutò di Roma»: quanti vennero dopo di lui si limitarono a seguire la via già tracciata da tanto attendibile interprete. Ammettiamo dunque che papa Celestino V, al secolo Pietro Angelerio, sia effettivamente da identificare con l’anima di cui parla Dante: perché un papa, seppur rinunciatario, ma tenuto in grande considerazione tra i contemporanei, per di più già canonizzato come confessore dalla Chiesa (la canonizzazione di Celestino V fu ratificata nel 1313), sarebbe collocato nell’anti-inferno? E, cosa che a noi interessa ancor di più, per quali ragioni un pio pontefice lascerebbe il suo prezioso incarico?

Partiamo dalla prima domanda. Secondo Dante, Celestino V, rinunciando al pontificato, compì un atto di viltà per viltade fece il gran rifiuto», Inferno III,60): egli sfuggì alle proprie responsabilità, cercando una posizione di totale neutralità e disimpegno, meritando dunque di vivere per l’eternità «sanza ‘nfamia e sanza lodo» (Inferno III,36). Ma cos’è la viltà per Dante? Molti commentatori intendono l’attributo «vile» come sinonimo di «pusillanime» in opposizione al concetto di magnanimità. Il senso in cui lo usa Dante è probabilmente affine a quello spiegato da Tommaso d’Aquino, autore noto e apprezzato dal nostro poeta: «è chiamato pusillanime soprattutto colui che, degno di grandi cose, si rifiuta di occuparsene e attende ad altre meno importanti» (Commentarium ad Ethicam Nicomacheam, IV, VIII, 11123 b 9). Il poeta pertanto non esprimerebbe un giudizio negativo sul piano morale, ma condannerebbe la viltà «politica» di un uomo che, anche se degno del compito a lui affidato, ebbe di sé una scarsa autostima, credendo di essere inferiore ai compiti che lo attendevano. Quindi, secondo Dante, il «gran rifiuto» di Celestino sarebbe da attribuire alla sensazione di inadeguatezza, al timore di non essere in grado di ricoprire una carica tanto importante e tanto piena di responsabilità. Ciò non alleggerisce affatto la sua colpa; anzi, agli occhi del guelfo bianco, la rinuncia di Celestino aprì la strada a un nuovo papa, Bonifacio VIII, corrotto e lascivo, e alle sue riprovevoli ingenerenze in campo politico. Egli non avrebbe avuto accesso al soglio pontificio se Celestino non si fosse comportato da «vigliacco».

Certamente Dante usa i toni di un uomo profondamente turbato, scontento, deluso. Ma, quanto alle ragioni del rifiuto, egli non sembra distante dalla realtà – o almeno dalla versione ufficiale di questa. L’atto con cui Celestino V rinunciò al papato è andato perduto, ma ci è stata tramandata per via indiretta la bolla con cui egli rinunciò all’incarico (Testo-della-bolla-trasmesso-da-Bonifacio-VIII.pdf). In essa la rinuncia è attribuita a «legittime ragioni»: tra queste spicca l’incapacità di gestire la carica, che il pontefice dimissionario attribuisce principalmente alla propria debolezza fisica. Non può non tornare prepotentemente alla mente la declaratio con cui Benedetto XVI ha comunicato il 10 febbraio 2013 la sua decisione di lasciare la carica (del testo riportiamo qui alcuni stralci: per la versione integrale apri il link): «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino».

Sia Celestino sia Benedetto manifestano preoccupazione per gli effetti che produrrebbe la propria, per così dire, «inadeguatezza fisica alla carica». Non sappiamo cosa successe nel Duecento, ma nei giorni scorsi non pochi si sono indignati ed hanno rinfacciato al papa emerito l’esempio offerto dal suo predecessore, l’amato Giovanni Paolo II. Egli è rimasto sul soglio petrino fino alla morte: l’abbiamo visto spegnersi giorno dopo giorno nel corpo malato, ma negli occhi guizzava sempre e fino alla fine una luce di vita, forza, coraggio, speranza e fede inestinguibile. Può un papa «scendere dalla croce»? Può un papa lasciare un incarico divinamente assegnato a causa della propria debolezza, quasi dando l’impressione di non confidare più nel Dio fedele, il quale «non permette che siamo tentati oltre le nostre forze» (1Cor 13) e guida la sua Chiesa con la potenza del suo Spirito? Questo dubbio ha attraversato molte persone, lasciando un po’ di umana, comprensibile, amarezza e facili, superficiali, paralleli con il papa «santo subito».

Ora, tanto per scrollare un po’ di polvere dagli occhi, sarà bene ricordare che fu proprio Giovanni Paolo II (a quanto riferisce il postulatore della sua causa di beatificazione, monsignor Slawomir Oder, in Perché santo) a incaricare l’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger, di studiare il tema delle dimissioni in virtù dei sempre più gravi problemi legati alla sua salute e all’età avanzata. Wojtyla alla fine decise che si sarebbe ritirato solo in caso di infermità invalidante, e lo stesso Ratzinger ne approvò la scelta, affermando, durante un’intervista resa il venerdì santo del 2005, a pochi giorni dalla morte del suo predecessore, che «è Dio ad affidare la missione ad un Pontefice ed è Dio a porvi fine». Eppure, cinque anni più tardi, in una conversazione registrata da Peter Seewald nel libro Luce del Mondo, lo stesso Benedetto XVI affermò che se un Papa si rende conto che non è più in grado «fisicamente, psicologicamente e spiritualmente, di assolvere ai doveri del suo ufficio, allora ha il diritto e, in alcune circostanze, anche l’obbligo, di dimettersi».

Certamente la scelta di Benedetto XVI è stata a lungo ponderata, preparata e quasi periodicamente annunciata. Moltre volte il pontefice ha lasciato trasparire stanchezza e preoccupazione per lo sforzo «quasi eccessivo» richiesto a un uomo di 83 anni, che il sostegno dei suoi collaboratori poteva solo alleviare. «Mi accorgo che le forze vanno diminuendo»: è una frase che non abbiamo sentito una volta sola in questi otto anni. Meno riflettuta forse fu la decisione di Celestino V, presa in meno di quattro mesi di pontificato. Ma anche su di lui pesavano l’età avanzata (pare sia stato eletto a 87 anni) e la debolezza del corpo, dal quale, al momento dell’elezione, era pressoché convinto che si sarebbe presto separato. È presente dunque in entrambi il primo requisito: il non essere in grado fisicamente di assolvere ai doveri dell’ufficio. Ma vi sono altri aspetti che accomunano i nostri due pontefici.

 

[continua tra sette giorni … ]

 

About Sabrina Antonella Robbe (68 Articles)
Laureata in Filologia e Letterature del Mondo Antico, è Dottore di Ricerca in Studi Filologico-Letterari Classici (Università di Chieti). I suoi interessi spaziano dal mondo classico a quello cristiano medievale, con particolare attenzione alla storia e letteratura del cristianesimo tardo-antico e all’agiografia.
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