“In casi di violenza domestica ricorrere a separazione terapeutica”
"Quando una persona - spiega don Paolo Gentili - viene a consegnare un dramma così penetrante, pur nel sigillo confessionale, il sacerdote ha in mano un bisturi con cui può aiutarla a liberarsi dal senso di colpa e dalla disistima di sé, incoraggiarla a custodire se stessa e i propri figli, sostenerla nel pretendere che il coniuge si curi. In casi estremi, si può anche parlare di “separazione terapeutica” da valutare come un dovere, e non solo un diritto, per la tutela di sé e dei propri bambini"

«In casi estremi si può anche parlare di separazione terapeutica per la tutela di sé e dei propri bambini». Lo ha affermato ieri don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio nazionale Conferenza episcopale italiana per la pastorale della famiglia, intervistato dall’agenzia di stampa Sir sul fenomeno della violenza domestica, a seguito dei dati allarmanti diffusi dall’Istat (6 milioni 788 mila donne sono o sono state almeno una volta nella loro vita vittime di abusi), e della lettera-appello al Papa nella quale la scrittrice italo-iraniana Farian Sabahi racconta il dramma vissuto in alcune famiglie cattoliche e solleva la questione della confessione: «La difesa del debole – spiega don Gentili – è il primo dovere di ogni cristiano; lo è ancor più per il pastore di una Chiesa: quando una persona viene a consegnare un dramma così penetrante, pur nel sigillo confessionale, il sacerdote ha in mano un bisturi con cui può aiutarla a liberarsi dal senso di colpa e dalla disistima di sé, incoraggiarla a custodire se stessa e i propri figli, sostenerla nel pretendere che il coniuge si curi. In casi estremi, si può anche parlare di “separazione terapeutica” da valutare come un dovere, e non solo un diritto, per la tutela di sé e dei propri bambini».
Di fronte a un uomo maltrattante e recidivo, dunque, il compito del confessore: «È – continua il direttore dell’Ufficio Cei per la Pastorale della famiglia – far capire che il pentimento, se sincero, deve portare a un cambiamento di vita. Tuttavia questo tipo di uomo è spesso vittima di un passato di violenza e occorre, allora, suscitare anche la consapevolezza dell’obbligo alla cura delle proprie nevrosi».
Per il responsabile dell’Ufficio Cei, è dunque una questione di giustizia: «Chiunque – esorta don Paolo Gentili – venga a conoscenza di episodi simili, deve assumersi le proprie responsabilità, a maggior ragione un pastore. Pur nella complessità e delicatezza delle dinamiche familiari e di coppia, è possibile intervenire con discrezione sostenendo la vittima di violenza con un accompagnamento di tipo affettivo e spirituale».
In molte parrocchie, tra l’altro, ci sono coppie preparate ed esperte: «Ma – raccomanda Gentili – quando occorrono competenze psicologiche, legali, mediche di tipo professionale, è bene invitare la donna a rivolgersi ai consultori familiari di ispirazione cristiana, rete che svolge un servizio molto prezioso sul territorio. Stop all’omertà di familiari e vicini di casa, perché se sappiamo e non interveniamo, siamo tutti gravemente corresponsabili».
Ma come si può prevenire questa piaga? «Con un’educazione ai sentimenti – conclude il direttore dell’Ufficio Cei per la Pastorale familiare -, alle relazioni e al controllo delle emozioni negative, che deve iniziare fin da piccoli in famiglia, a scuola, in parrocchia, nei luoghi del divertimento e dello sport».