“È Cristo che battezza, non si può modificare la formula del sacramento”
“Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Quanti hanno ricevuto il battesimo in questa modalità, secondo la Congregazione per la Dottrina della Fede, devono essere battezzati “in forma assoluta”, cioè ripetendo il rito secondo le norme liturgiche stabilite dalla Chiesa
Non è valido il sacramento del battesimo impartito con formule arbitrariamente modificate. Lo ha stabilito la Congregazione per la Dottrina della Fede, rispondendo a due quesiti su un battesimo amministrato con la formula: “Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Quanti lo hanno ricevuto in questa modalità, secondo la Congregazione pontificia, devono essere battezzati “in forma assoluta”, cioè ripetendo il rito secondo le norme liturgiche stabilite dalla Chiesa. Papa Francesco ha approvato nel giugno scorso questo “responsum” che oggi è stato pubblicato. “A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, era la formula in esame.
In una nota dottrinale esplicativa, l’ex Sant’Uffizio ha osservato che «la deliberata modifica della formula sacramentale era stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità, che la formula presente nel Rituale Romano veicolerebbe. In realtà – ricorda la nota, citando la Costituzione conciliare Sacrosantum Concilium – quando uno battezza è Cristo stesso che battezza, è Lui il protagonista dell’evento che si celebra. Ciò non toglie che i genitori, i padrini e tutta la comunità ecclesiale siano chiamati a svolgere un ruolo attivo, “un vero e proprio ufficio liturgico”. Ma questo, secondo la costituzione conciliare, prevede che «ciascuno, ministro o fedele, svolgendo il proprio ufficio, compia soltanto e tutto quello che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza (Sacrosanctum Concilium, n. 28). Riaffiora qui, con discutibili motivazioni di ordine pastorale, un’antica tentazione di sostituire la formula consegnata dalla tradizione con altri testi giudicati più idonei, ma il ricorso alla motivazione pastorale maschera, anche inconsapevolmente, una deriva soggettivistica e una volontà manipolatrice».
Anche il Concilio Vaticano II, in linea con il Concilio di Trento, aveva dichiarato «l’assoluta indisponibilità del settenario sacramentale all’azione della Chiesa», stabilendo che nessuno, «anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica». Questo divieto per una ragione precisa: «Modificare di propria iniziativa la forma celebrativa di un Sacramento – ammonisce la Congregazione per la Dottrina della Fede – non costituisce un semplice abuso liturgico, come trasgressione di una norma positiva, ma un vulnus inferto a un tempo alla comunione ecclesiale e alla riconoscibilità dell’azione di Cristo, che nei casi più gravi rende invalido il Sacramento stesso, perché la natura dell’azione ministeriale esige di trasmettere con fedeltà quello che si è ricevuto. Nella celebrazione dei sacramenti – spiega la nota – l’assemblea non agisce “collegialmente”, ma “ministerialmente” e il ministro “non parla come un funzionario che svolge un ruolo affidatogli, ma opera ministerialmente come segno-presenza di Cristo, che agisce nel suo Corpo, donando la sua grazia».
In questo senso, si legge nella nota della Congregazione, «va compreso il dettato tridentino sulla necessità del ministro di avere l’intenzione almeno di fare quello che fa la Chiesa. Un’intenzione che non può rimanere “solo a livello interiore”, con il rischio di soggettivismi, ma si esprime anche in un “atto esteriore” compiuto non in nome proprio, ma nella persona di Cristo. Alterare la formula sacramentale significa, inoltre, non comprendere la natura stessa del ministero ecclesiale, che è sempre servizio a Dio e al suo popolo e non esercizio di un potere che giunge alla manipolazione di ciò che è stato affidato alla Chiesa con un atto che appartiene alla tradizione. In ogni ministro del battesimo deve essere quindi radicata non solo la consapevolezza di dover agire nella comunione ecclesiale, ma anche la stessa convinzione che sant’Agostino attribuisce al Precursore, il quale apprese che ci sarebbe stata in Cristo una proprietà tale per cui, malgrado la moltitudine dei ministri, santi o peccatori, che avrebbero battezzato, la santità del Battesimo non era da attribuirsi se non a colui sopra il quale discese la colomba, e del quale fu detto “È lui quello che battezza nello Spirito Santo (Gv 1, 33)”. Quindi, commenta Agostino, “Battezzi pure Pietro, è Cristo che battezza; battezzi Paolo, è Cristo che battezza; e battezzi anche Giuda, è Cristo che battezza”.