Ultime notizie

Kierkegaard e la protesta di chi soffre

Il discorso religioso di Kierkegaard intitolato «Il sommo sacerdote» (1849) è sopratutto un discorso sulla compassione, sulla possibilità e i limiti della condivisione della sofferenza. Dall'esistenza al salto nella fede.

«Mio ascoltatore, se tu stesso sei stato, o forse sei, sofferente oppure se hai conosciuto chi soffre, forse con la buona intenzione di dargli conforto, hai senz’altro ascoltato spesso la comune protesta di chi soffre: “Tu non mi capisci, sì, non mi capisci, non ti metti al mio posto”. Se ti mettessi al mio posto, se fossi capace di metterti al mio posto, se potessi metterti fino in fondo al mio posto e dunque capirmi fino in fondo, allora parleresti diversamente».

kierkegaardÈ con queste parole che ha inizio il discorso religioso di Kierkegaard (1813-1855) intitolato «Il sommo sacerdote», pubblicato il 13 novembre del 1849 insieme ad altri due – «Il pubblicano» e «La peccatrice» –, tutti raccolti con il sottotitolo di «Tre discorsi per la comunione del venerdì». Se formalmente i discorsi religiosi di Kierkegaard si inseriscono nella lettura di edificazione e nella predica, come ben dimostra la loro struttura articolata in una preghiera iniziale, un brano evangelico e l’interpretazione del brano, il filosofo danese negò nei suoi scritti di appartenere a questa tradizione e di avere l’autorità per insegnare o predicare, ribadendo, anche provocatoriamente, di non essere un vero cristiano o un testimone della verità, solo un «poeta del cristianesimo». Si sa, per Kierkegaard il cristianesimo non deve essere un insegnamento esteriore in cui la dottrina risuona a vuoto ma «comunicazione di esistenza» in cui chi comunica deve reduplicare, mostrare nella propria vita ciò che comunica. Senza dubbio le parole riportate in apertura non possono non toccare l’esistenza di ogni singolo, richiamando un’esperienza che riguarda tutti e ciascuno: la possibilità e i limiti della condivisione della sofferenza. C’è una protesta che chi soffre ripete spesso a chi vorrebbe portare conforto, causando spesso fraintendimenti e litigi tra gli attori coinvolti: «non mi capisci, non sei capace di metterti al mio posto!». Sono queste, forse, le parole di un cuore capriccioso e ingrato? A ben guardare, scrive Kierkegaard, chi soffre ha pur sempre una qualche ragione, perché nessun essere umano può vivere fino in fondo la stessa esperienza di un altro e, con tutta la buona volontà, mettersi al suo posto, percepire, sentire, pensare come un altro. Tutti sperimentano nella sofferenza come possa essere urticante sia chi, volendo consolare, rimane sulla riva sicura e lontana della fredda commiserazione, sia chi si arrischia nel mare aperto della compassione e, pretendendo di mettersi fino in fondo al posto dell’altro, sciorina consigli del tipo: “devi reagire”; “c’è chi ha superato il tuo stesso problema”; “è meglio fare questo o quello”; “c’è di peggio!”. Per quanto siano animati da buone intenzioni, consolatori del genere non fanno altro che perpetuare la sofferenza senza saper indicare la via di uscita. Nella sfera umana, afferma Kierkegaard, la compassione è sempre imperfetta e limitata perchè nessuno può mettersi completamente al posto dell’altro; così sarebbe auspicabile attenersi al seguente consiglio: «Tu che compatisci, mostra vera compassione e non pretendere di metterti fino in fondo al posto dell’altro. E tu che soffri, mostra vero buon senso, e non pretendere l’impossibile dall’altro».

Se nella sfera umana gli uomini sapienti si muovono sul filo dell’equilibrio imperfetto tra chi soffre e chi consola, al cristiano è chiesto un salto nella fede: credere che solo Cristo possa capire fino in fondo chi soffre, e dunque possa mettersi al posto di chiunque soffra e per qualsiasi sofferenza soffra. Di questo, infatti, parla la Sacra Scrittura nella Lettera gli Ebrei: «Perché noi non abbiamo un sommo sacerdote incapace di avere compassione delle nostre debolezze, ma ne abbiamo invece Uno che è stato provocato in tutto al nostro stesso modo, ma senza alcun peccato» (Eb IV, 15) .

Quello che la compassione umana non può fare – mettersi al posto di chi soffre per poter davvero recare conforto –, solo la compassione divina lo può. Per commentare il passo della Lettera agli Ebrei, rivolgendosi direttamente al lettore, le parole di Kierkegaard disegnano tenui acquerelli, rappresentativi di tutte le situazioni di sofferenza abitate da Cristo che era Dio e divenne uomo. Tu, uomo, soffri la fame e l’indigenza? Ricordati che Lui nacque in una stalla, avvolto negli stracci, e per il sostentamento quotidiano non possedeva più del giglio nel campo e dell’uccello nel cielo. Tu, uomo, hai un dolore nel cuore? Ricordati che Cristo aveva amici, ma visse l’abbandono: uno Lo tradì, l’altro Lo rinnegò. Soffri per il peccato e la malvagità del mondo intorno a te? Prova, allora, a paragonare il tuo dolore con il dolore che alberga nel Salvatore del mondo. «Lui, che fu disprezzato perseguitato, insultato, deriso, coperto di sputi, frustato, maltrattato, torturato, crocifisso, […]: qualunque cosa tu abbia sofferto, e chiunque tu sia, non credi forse che possa mettersi fino in fondo al tuo posto?».

Ma prendere coscienza di questo, in fondo, a cosa giova nella nostra vita? Se so che Cristo può prendere fino in fondo, senza residui, il mio posto nella sofferenza, da una parte smetterò di pretendere dagli altri una totale comprensione dei miei dolori; dall’altra non dispererò come se le mie sofferenze fossero così spaventose che neppure Lui saprebbe mettersi al mio posto. Cristo fu il più sofferente dei sofferenti: soffrì tutto, senza cercare conforto negli altri, tanto meno trovandolo, ancor meno lamentandosene; Lui fu il sofferente in assoluto, il cui unico e incondizionato conforto era confortare gli altri. «Il sommo sacerdote», ricordiamo, fa parte dei «Tre discorsi per la comunione del venerdì», giorno in cui la gente, per la chiesa riformata di allora, andava in chiesa solo se voleva ricevere la comunione. Il discorso si chiude proprio con l’invito a comunicarsi, per fare ancora memoria che solo Lui con la sua sofferenza e la sua morte si è messo completamente al nostro posto. All’inizio del discorso troviamo invece la seguente preghiera, invocazione all’unico sofferente che di tutti è «il consolatore», a voi donata a conclusione della nostra riflessione: «Dove andremo, se non da te, Signore Gesù Cristo! Dove il sofferente troverà compassione, se non da te e dove il pentito, ahimè, se non da te, Signore Gesù Cristo!».

Le citazioni sono tratte da: S. Kierkegaard, Il sommo sacerdote, in ID., Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, a cura di Ettore Rocca, Donzelli, Roma 2011, pp. 75-85.

Immagine: Dipinto Il bacio di Giuda, Beato Angelico e Benozzo Gozzoli, XV sec., Convento di S. Marco (Firenze).