Quella volta che Leopardi decise di arrabbiarsi …
L'episodio dello scontro con Tommaseo permette di conoscere un lato un po' in ombra del carattere del recanatese.
Uno dei nostri più grandi intellettuali, Giacomo Leopardi, nell’ opinione comune è un uomo oggetto di un destino avverso e beffardo, incapace di qualsiasi reazione in grado di difendere le proprie posizioni, in letteratura quanto nella vita; tanto fine come uomo di lettere e filosofo quanto debole di carattere.
L’opinione di cui sopra va sicuramente rivista qualora si associ al recanatese il nome di Niccolò Tommaseo: i due elementi, come per una reazione chimica, una volta entrati in contatto hanno creato una sorta di effetto esplosivo che li ha portati a darsele «di santa ragione», e neanche in maniera troppo velata.
Tommaseo è più giovane di Giacomo di quattro anni, essendo nato nel 1802, è un intellettuale cattolico, laureato in Giurisprudenza che giunge a Firenze e comincia una collaborazione col Gabinetto Vieusseux nel 1825 scrivendo di letteratura, filosofia e lessicografia. Più o meno nello stesso torno di tempo il Conte Leopardi si trasferisce nel centro toscano e collabora anch’egli col Vieusseux rimanendo in città, con alcune pause, fino al settembre 1831 quando decide con l’amico Antonio Ranieri di fare rotta verso Napoli.
L’incontro fra i due letterati, favorito probabilmente anche dall’ amico comune Gino Capponi, pare essere stato senza particolari antipatie reciproche visto che scrivendo a Vieusseux in relazione ai suoi amici, ancora nel 1831, il recanatese dice tra l’altro: «Salutatemi Tommaseo». Qualcosa però deve essere cominciato a incrinarsi già qualche anno prima. Infatti quando l’Accademia della Crusca bandisce un concorso al quale il nostro partecipa con le sue Operette morali la disfatta è completa, visto che riceve un solo voto (quello del Capponi); e le altre opinioni -non migliori- dimostrano quanta poca considerazione avesse Leopardi in alcuni circoli intellettuali coevi. Tornando al 1827 non manca – ça va sans dire– l’opinione del Tommaseo sulle Operette, che è impietosa: «Ho letto il libro del Conte Leopardi: […] i principii tutti negativi, non fondati a ragione, ma solo a qualche osservazione parziale, diffondono e nelle immagini e nello stile una freddezza che fa ribrezzo, una desolante amarezza».
Giacomo inizialmente evita di esprimere giudizi sul lessicografo dimostrando un self control non indifferente e infatti a Stella, l’editore che lo aveva informato del parere non proprio lusinghiero di Niccolò,
risponde il 23 agosto 1827: «Circa il giudizio sopra le “Operette morali”, che Ella comunica, che vuol ch’io le dica? Dirò solo che non mi riesce impreveduto. Che i miei principii sieno tutti negativi, io non me ne avveggo; ma ciò non mi farebbe gran maraviglia, perché mi ricordo di quel detto di Bayle: che in metafisica e in morale, la ragione non può edificare, ma solo distruggere. Che poi le mie opinioni non sieno fondate a ragione ma a qualche osservazione parziale, desidero che sia vero».
Compiendo un piccolo salto cronologico arriviamo al 1835 quando vengono pubblicati I Canti, occasione che permette a Niccolò, oramai in esilio volontario in Francia, di dire -ancora una volta- la sua sul poeta: «è elegantemente disperato, prolissamente dolente, e dottamente annoiato di questa misera vita». Dopo tale definizione, il poeta perde il tradizionale aplomb e dopo aver letto un articolo sulla rivista «L’Italiano» di mano del linguista, decide di rispondere – letteralmente- per le rime attraverso un epigramma nell’agosto del 1836, poi però non reso pubblico:
Oh sfortunata sempre
Italia, poi che Costantin lo scettro
Tolse alla patria, ed alla Grecia diede!
Suddita, serva, incatenata il piede
Fosti d’allor. Mille ruine e scempi
Soffristi. In odio universale e scorno
Cresci di giorno in giorno;
Tal che quasi è posposto
L’Italiano al Giudeo.
Or con pallida guancia
Stai la peste aspettando. Alfine è scelto
A farti nota in Francia
Niccolò Tommaseo.
È evidente come il destino dell’Italia sia un ininterrotto processo di sconfitte che culmina, secondo il nostro Giacomino, con la Francia costretta a conoscerla solo attraverso questo lessicografo tanto altezzoso, che sempre a detta del nostro, scrisse opere delle quali «nessuno comprese nulla».
Insomma, almeno per una volta, Leopardi ha dimostrato che è un uomo come tutti gli altri: fragile sì, ma anche capace di reagire a chi si arroga il diritto di porre il giudizio finale e definitivo su di lui senza averlo capito fino in fondo.
L’odio del Tommaseo esiliato arrivò poi a manifestarsi anche post mortem, infatti nel 1838 scrisse dei versi per la morte del poeta: «Natura con un pugno lo sgobbò:/ “canta” gli disse irata ed ei cantò;/ “Esser vorresti uccello? Siam lì: sei pipistrello».
Dove non poté l’ingegno arrivò la cattiveria.