Unctad: “Economia mondiale ancora sotto stress, nuove crisi all’orizzonte”
2L’iper-globalizzazione – osserva l’Unctad - non ha portato agli sperati benefici diffusi e il dogma del libero scambio è stato a lungo la scusa per ridurre lo spazio di manovra per i Paesi in via di sviluppo e diminuire le protezioni per i lavoratori e le piccole imprese, a tutto vantaggio delle rendite delle grandi imprese multinazionali"

«L’economia mondiale è di nuovo sotto stress» e in molti Paesi emergenti si addensano «pericolose nuvole temporalesche all’orizzonte». È l’allarme contenuto nel Rapporto Unctad (Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo) 2018 “Potere, piattaforme e la disillusione del libero scambio” sul commercio e lo sviluppo lanciato ieri a Roma, nella sede di Radio Vaticana e in contemporanea a livello mondiale, insieme al Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale.
Il rapporto indaga in che modo il potere economico si stia concentrando «in un numero sempre minore di grandi imprese multinazionali» e l’impatto sulle «capacità dei Paesi in via di sviluppo di beneficiare della loro partecipazione ai mercati internazionali e di avvantaggiarsi delle nuove tecnologie digitali». Un decennio dopo la crisi finanziaria del 2008: «L’economia mondiale rimane su un terreno instabile – denuncia il Rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo -, in cui le guerre commerciali sono solo il sintomo di un malessere più profondo. Nonostante la ripresa dell’economia globale registrata dall’inizio del 2017, la crescita rimane spasmodica e molti Paesi continuano ad operare ben al di sotto delle loro potenzialità».
È inoltre improbabile, secondo il rapporto, che le cose possano cambiare nel corso di quest’anno: «L’economia mondiale è di nuovo sotto stress – dichiara Mukhisa Kituyi, segretario generale dell’Unctad –, stress che si riflette nella crescita delle tariffe doganali e nella persistente volatilità dei flussi finanziari. Dietro queste minacce alla stabilità globale c’è però un fallimento più ampio, l’incapacità di far fronte sin dal 2008 alle disuguaglianze ed agli squilibri del nostro mondo iper-globalizzato».
Le grandi economie emergenti sono in crescita e gli esportatori di materie prime possono aspettarsi un ulteriore miglioramento, fintantoché i prezzi rimarranno stabili. Ad eccezione della Federazione Russa, la crescita in Brasile, India, Cina e Sudafrica, dipende significativamente dalla domanda interna: «Questo non è però il caso per molte altre economie emergenti – precisa l’Unctad -, e con l’aumento del rischio ed il progressivo allargarsi delle linee di faglia finanziarie in svariati Paesi, ci sono pericolose nuvole temporalesche all’orizzonte. Lo stock di debito globale ammonta attualmente a 250 trilioni di dollari, un valore pari al triplo del Prodotto interno lordo mondiale ed accresciuto del 50% rispetto al 2008».
Insomma, la globalizzazione non ha raggiunto il suo scopo: «L’iper-globalizzazione – osserva l’Unctad – non ha portato agli sperati benefici diffusi e il dogma del libero scambio è stato a lungo la scusa per ridurre lo spazio di manovra per i Paesi in via di sviluppo e diminuire le protezioni per i lavoratori e le piccole imprese, a tutto vantaggio delle rendite delle grandi imprese multinazionali. Ma né il ritorno ad un nazionalismo nostalgico, né un rinnovato sostegno al libero scambio possono migliorare adesso la situazione».
Un’altra grave denuncia che emerge nel rapporto riguarda lo squilibrio di un commercio globale che: «Continua ad essere dominato dalle grandi multinazionali – accusa l’agenzia delle Nazioni unite -, grazie al controllo delle catene globali di valore; in media, l’1% delle maggiori imprese esportatrici di un Paese è artefice di oltre la metà delle sue esportazioni complessive».
La relazione fra crescita degli scambi e crescita economica, a detta dell’Unctad, è però divenuta più flebile che in passato: «E l’aumento nei volumi di scambi internazionali – precisa l’agenzia Onu – ha generato disuguaglianze, visti i benefici di cui hanno beneficiato le principali imprese, derivanti da una maggiore concentrazione di mercato e dal controllo di beni immateriali». Sono le cosiddette aziende superstar: «Sono un fenomeno globale e le loro strategie di rendita vanno ben oltre i confini nazionali – rivela Richard Kozul-Wright».
Dunque, che si tratti o meno di una guerra commerciale conclamata: «I recenti aumenti nelle tariffe doganali – denuncia il rapporto – sono destinati a spezzare un sistema di negoziazione internazionale sempre più legato alle catene globali di valore. Tuttavia, le conseguenze di una escalation tariffaria, l’aumentare dell’incertezza e la riduzione degli investimenti, potrebbero avere effetti più dannosi nel medio termine, soprattutto per quei Paesi che già stanno fronteggiando difficoltà finanziarie».
Da qui il monito lanciato dall’Unctad: «Dopo decenni dedicati alla ricerca spasmodica del libero scambio – conclude la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo -, sarebbe gravissimo abbracciare adesso l’eccesso opposto – una guerra tariffaria – piuttosto che considerare cosa i governi possano fare per evitare il continuo deterioramento della distribuzione del reddito e dell’occupazione, che sono alla base delle più recenti crisi economiche».
E anche gli investimenti tecnologici, rischiano di venire danneggiati: «I potenziali benefici delle tecnologie digitali nei Paesi in via di sviluppo – rilancia il rapporto -, rischiano di essere compromessi dalle strategie di rendita adottate dai monopoli digitali. Se non saranno affrontate seriamente le questioni relative al controllo ed all’utilizzo dei dati nelle sedi appropriate, ogni investimento in capitale intangibile ed infrastrutture digitali da parte dei Paesi in via di sviluppo rischia di non produrre gli effetti sperati. Questi Paesi devono cercare di preservare, ed espandere, il loro margine di azione in politica economica per garantirsi il controllo necessario dei dati prodotti sul territorio nazionale ed integrarsi gradualmente nell’economia digitale globale».
La rivoluzione digitale, per questi Paesi, è dunque arrivata nel momento sbagliato: «La rivoluzione digitale – ha detto il segretario generale Kituyi – si è purtroppo manifestata in un’era neoliberista. Contesto in cui l’assenza di controlli adeguati, ha permesso ad alcune grandi imprese di sfuggire alla supervisione dei governi nazionali e di espandersi in nuove aree di profitto. Il grande business ha di fatto trasformato l’estrazione e l’elaborazione dei dati, in uno strumento per l’estrazione di rendite sempre maggiori, una cornucopia».
Fra le 25 aziende tecnologiche leader in termini di capitalizzazione di mercato, secondo l’Unctad, 14 hanno sede negli Stati Uniti d’America, 3 nell’Unione europea, 3 in Cina, 4 in altri Paesi asiatici e solo una in Africa. Le prime tre grandi società tecnologiche negli Stati Uniti, hanno una capitalizzazione di mercato media di oltre 400 miliardi di dollari, rispetto ai 200 miliardi di media delle principali società tecnologiche cinesi, ai 69 miliardi registrati in Europa ed ai 66 in Africa.
Di recente, Apple è diventata la prima società valutata oltre 1 trilione di dollari, un valore superiore al Pil di molti Paesi Ocse tra cui il Portogallo e la Nuova Zelanda. Il volume segnala anche la rapidità dei vantaggi derivanti da una posizione di dominante sul mercato: il rapporto tra profitti e vendite di Amazon, ad esempio, è passato dal 10% fatto registrare nel 2005 al 23% del 2015, mentre quello di Alibaba è passato dal 10% del 2011 al 32% del 2015.