Giovani: “L’unico modo per ritessere un dialogo con loro è dargli fiducia”

Il cappellano del Carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano don Claudio Burgio, lo scorso mercoledì 12 febbraio, è stato ospite dell’Arcidiocesi di Pescara-Penne per vivere due momenti: al mattino, nella chiesa della Visitazione della Beata Vergine Maria a Pescara, un confronto con gli studenti delle scuole secondarie di Pescara e Montesilvano. Nel pomeriggio, invece, nel vicino Teatro Cavour ha incontrato insegnanti e genitori per un confronto educativo sulla realtà giovanile dal tema “Non vi guardo perché rischio di fidarmi”.

Due appuntamenti organizzati dalla Pastorale scolastica dell’Arcidiocesi di Pescara-Penne, in collaborazione con l’Associazione Diesse: «Questi incontri – spiega Giselda Toppetti, coordinatrice della Pastorale scolastica diocesana – sono nati da una riflessione che stiamo facendo con docenti, presidi, genitori ed educatori, anche dopo il brutto episodio che abbiamo vissuto a Pescara con la morte di Thomas Christopher Luciani – che ci ha aperto gli occhi su una realtà che comunque, ormai, fa parte anche della nostra città, la problematica legata ai giovani. Da questo ci stiamo interrogando perché ad essere in crisi, prima dei ragazzi, forse siamo noi adulti che dobbiamo capire come relazionarci con loro in una modalità nuova. Così, al mattino, proprio gli studenti hanno rivolto 80 domande a don Claudio così come, nel pomeriggio, abbiamo fatto anche noi adulti sicuri che le sue risposte ci avrebbero provocato per renderci educatori, insegnanti, catechisti e genitori all’altezza di questi ragazzi che chiedono tanto oggi. Chiedono accoglienza, chiedono ascolto, chiedono speranza e, come diceva lo stesso don Claudio in mattinata, chiedono tutta la nostra fiducia». A margine dei due incontri, abbiamo intervistato il noto presbitero per La Porzione.it e Radio Speranza InBlu.
Un incontro dal tema provocatorio, “Non vi guardo perché rischio di fidarmi”, che sembra riportare ad una fiducia data in maniera prudente. Ma oggi possiamo davvero fidarci con quello che si sente anche a livello anche di criminalità e criminalità giovanile. Un fenomeno che anche qui a Pescara ha colpito duramente negli ultimi mesi…
«Purtroppo non abbiamo altre scelte, se non quelle di rischiare e di promuovere fiducia, almeno come adulti, come istituzioni. Noi sappiamo purtroppo che è difficile oggi interloquire con le generazioni giovani. C’è come una sorta di separazione tra le generazioni che sono diventate quasi incapaci di comunicare, di mettersi in dialogo. Quindi l’unico modo per ritessere un dialogo con questi ragazzi è ridare loro fiducia, credere nelle loro potenzialità, nelle loro capacità espressive, anche quando magari le narrazioni più affermate in questo periodo sono quelle di tipo più criminogeno. È vero, ci sono ragazzi che sbagliano, ma proprio per questo hanno più bisogno della nostra condizione di fiducia».
Questi episodi di degrado giovanile a cosa li possiamo collegare? È un problema di abbandono da parte dei genitori sempre impegnati con il lavoro, a portare avanti la loro vita frenetica, o di una scuola che non ce la fa a supplire al compito educativo forse troppo gravoso, per quella che è la delega in bianco data dalle famiglie?

«Credo che ci siano tante cause e concause. Certamente non si possono spiegare questi fenomeni solo con una lettura semplificata. Dobbiamo metterci in ascolto e capire che cosa ha prodotto questa grande solitudine, questo vuoto interiore dei ragazzi. Probabilmente sono venuti meno i codici etici, quelli che facevano riferimento a tutta la generazione nella quale anch’io sono vissuto. Quindi la societas cristiana, bene o male, comunque ci accumulava tutti dentro un percorso comune, una cultura omogenea. Oggi davvero è cambiata un’epoca, come dice Papa Francesco, perché i linguaggi non sono gli stessi, i codici di riferimento non sono gli stessi e quindi noi adulti dobbiamo imparare a tornare ad ascoltare questi ragazzi per capirne il senso e la direzione».
Si può ancora fare prevenzione? Come si può fare?
«È importante farlo a tutti i livelli, cominciare dalla scuola, dai centri sportivi e da tutte quelle agenzie educative che hanno a che fare con ragazzi, partendo da loro. Anche, paradossalmente, dalla loro musica rap o trap, che sicuramente per noi è quasi inconciliabile con i nostri punti di vista e i nostri schemi, in qualche modo, maturati negli anni. Però è un linguaggio a cui dobbiamo anche guardare, per poter capire questa generazione e per poi saperla affrontare anche nei linguaggi appropriati».
Lei che è il cappellano di un carcere minorile, cosa fare per attuare una riabilitazione di questi ragazzi quando sembra ormai essere troppo tardi, perché hanno varcato le porte del carcere?
«Anche quando entro in un carcere minorile siamo sempre ancora in un’ottica di prevenzione, perché bisogna scongiurare che questi ragazzi poi finiscano nel carcere degli adulti, per cui dobbiamo imparare a sapere che anche il disagio in adolescenza è comunque qualcosa da cui si può uscire. Se però la giustizia è solo di tipo vendicativo, punitivo, certamente non porterà a cambiamenti veri. Dobbiamo promuovere una cultura dell’inclusione, che non sia perdonismo, che non sia buonismo, perché quest’ultimo è una violenza non solo per le vittime, ma anche per questi ragazzi che hanno tutte le potenzialità per poter rinascere e rendere la società più sicura. Però dobbiamo investire parecchio».
Per concludere il suo auspicio e il suo appello rivolto ai ragazzi, ma anche alle loro famiglie…
L’appello è alle famiglie, agli adulti, a non immaginare sempre traguardi eccellenti per questi figli, perché quest’ansia da prestazione poi travolge questi figli, li rende impotenti, fragili e nella frustrazione delle mancate attese, questi ragazzi si sentono sempre inadeguati. Per cui dobbiamo guardare a loro con molta libertà, con molta verità, sapendo promuovere il bene».

A chiudere l’incontro con gli insegnanti e i genitori del cappellano del Carcere “Cesare Beccaria” di Milano, è stato l’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti: «Non chiudiamoci – invita il presule -. Apriamo le associazioni e i movimenti. Non coccoliamoci più. Ci siamo coccolati e pianti addosso abbastanza in passato. Adesso è ora di svegliarsi e di aprire le porte perché, lo ripeto, la preghiera che abbiamo fatto all’inizio della settimana di preghiera dell’unità dei cristiani è molto importante. Non basta dire il dialogo, bisogna aprire le porte. Spalanchiamo tutte le porte del nostro cuore, perché solo se spalanchiamo le porte possiamo arrivare ad avere il coraggio di quel dialogo auspicato da don Claudio nel suo intervento».
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