“…una profonda ingiustizia”
È forse ora di volgere altrove l’attenzione, nel nostro tour, passando finalmente dalla considerazione dei sadducei a quella dei farisei: il passaggio è tanto delicato e tanto difficile, perché quanto più è sottile l’errore dei farisei rispetto a quello dei sadducei (lo si è già detto), tanto più esso è grave e gravido di pesanti conseguenze per tutti.
Per averne un’idea basti richiamare il gran baccano mediatico insorto negli ultimi giorni a seguito del “carteggio aperto” di papa Francesco con Eugenio Scalfari, pubblicato su la Repubblica, e dell’intervista che lo stesso papa Francesco ha voluto rilasciare al gesuita Antonio Spadaro, pubblicato su La Civiltà Cattolica (lo stesso Spadaro ne è direttore). Si tratta di due episodî notevoli che, sebbene non del tutto eccezionali nel loro genere, andrebbero trattati con riguardo particolare – forse lo faremo –; altro discorso andrebbe fatto per quelle voci di stupore e di scandalo che a tal proposito si levano proprio dai “ranghi della Chiesa”. Quanti s’erano avvicinati alla Chiesa cattolica, in apparenza anche di molto, a causa della figura di Benedetto XVI e dei suoi carismi personali, e che a questa semplice fascinazione umana avevano delegato la professione della loro fede, si sono sentiti sperduti a vedere che il ruolo di Benedetto XVI (che è stato, ed è, più propriamente, quello di Pietro) è ora ricoperto da Francesco, il quale quasi nulla ha mantenuto delle forme esteriori e dello stile estetico del predecessore; essi sono rimasti dunque così sconcertati da covare un’ombra d’inconfessabile e astioso sospetto verso ogni manifestazione di plauso pubblico rivolta a Francesco e, ancora di più, verso le stesse espressioni del Papa, nelle quali non esitano a rintracciare (inesistenti) tracce di rottura sostanziale con la dottrina di Benedetto XVI.
Si esemplifica così quanto già all’inizio del nostro percorso avevamo detto circa la grande prossimità fondamentale dell’errore dei farisei e dei sadducei: riferito al Papa (ma la fede – e ogni Papa lo insegna – è molto più grande di Pietro!), ciò significa che quelli che oggi si legano a Francesco perché è loro simpatico non si legano a Cristo più di quanto lo abbiano fatto quelli che a Benedetto, per simpatia, si erano legati. E i fatti, la storia, sono lì pronti a mostrarlo.
Di questo e di altro ancora, però, parleremo prossimamente, perché ci tocca oggi riprendere un argomento che il tempo e lo spazio ci avevano permesso solo di sfiorare, la volta scorsa, mentre l’analisi sommaria delle banalità del Sadduceo ci aveva pressoché completamente distolti da una vera e propria pars construens. Anche le stesse (bellissime) citazioni dell’enciclica Lumen fidei sono state probabilmente troppo sporadiche, e troppo strettamente finalizzate a smascherare la mistificazione del Sadduceo, perché se ne potesse cogliere lo splendore propositivo.
Neanche su questo è ora di soffermarci, perché il Papa non è né un fariseo né un sadduceo: c’è però un argomento del Sadduceo che merita qualche considerazione di più di quelle con cui l’avevamo liquidato. Egli aveva infatti riportato l’affermazione di Indro Montanelli che, sul finire della propria vita, scriveva:
Io ho sempre sentito e sento la mancanza di fede come una profonda ingiustizia che toglie alla mia vita, ora che ne sono al rendiconto finale, ogni senso. Se è per chiudere gli occhi senza aver saputo di dove vengo, dove vado, e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli.
Della scorrettezza e della faziosità degli argomenti del Sadduceo s’è già parlato a sazietà: ci resta però da considerare cosa in sé e per sé le parole di Montanelli dicano (o possano dire) a chi s’interroghi onestamente sul rapporto tra il dono eterno di Dio e la libertà degli uomini.
L’obiezione è semplice, e il problema non è che alcuni uomini dicano di non credere in Dio: se a) la fede è dono di Dio e b) «senza la fede è impossibile piacere a Dio» (Eb 11, 6), come si può condannare chi questo dono afferma di non averlo ricevuto?
Abbiamo già visto come la proposta del Sadduceo – che tenta di smontare il problema riducendo la fede a “una modalità del sentimento” – sia in realtà offensiva del dramma che si vanta di difendere, e risulti in ultima analisi profondamente inadeguata. Questo è in realtà il problema dei problemi, la questione ultima dello spirito religioso: da dove viene la conoscenza di Dio, e anche solo il desiderio di avere a che fare con lui? Da dove viene l’idea di Dio?
Quest’ultima domanda è condivisa da credenti e non credenti, perché tutti (anche Montanelli) capiscono cosa s’intende quando si parla di Dio; la penultima riguarda tutti i credenti e una parte dei non credenti (perché anche Montanelli, appunto, si disse non credente eppure non fece mistero della propria nostalgia della fede); la prima è prerogativa di quelle coscienze in cui l’originario senso religioso si è compiuto in ciò che, propriamente, si chiama “fede”.
Ora, però, non vorrei che lo scaglionamento che ho proposto desse un’idea di linearità e chiarezza che in realtà non appartiene alla modalità in cui l’anima umana e i suoi ritmi si presentano alla nostra osservazione: la premessa fondamentale è che proprio la coscienza umana è il palcoscenico su cui tutto il dramma religioso si svolge. Il fatto che la comprensibilità dell’idea di Dio appartenga a tutti gli uomini senza eccezioni, mentre la fede non risulta affatto condivisa da tutti gli uomini, ciò sposta l’attenzione sul punto centrale, ossia sul desiderio di Dio e sul suo punto più problematico: perché non solo gli uomini che hanno fede dicono di desiderare Dio, ma anche alcuni di quelli che pretendono di non avere fede?
La Tradizione cristiana insegna che il desiderium naturale videndi Deum (il desiderio di vedere Dio, che è già di per sé insito nella natura umana come Dio l’ha creata) non è ancora la fede vera e propria, che non c’è senza il vero e proprio dono che fa «rinascere dall’alto» (cf. Gv 3, 3), eppure indirizza verso quella e ad essa predispone. Così, in effetti, s’è espresso anche papa Francesco (e “con lui” Benedetto XVI) nella Lumen fidei. Se dunque da un lato si afferma che il desiderio di vedere Dio è proprio della natura umana, mentre dall’altro l’esperienza sembra piuttosto indicare che non tutti gli uomini desiderano vedere Dio, ciò non è contraddittorio (gli uomini che avevano formulato il primo asserto erano certamente ben avvisati anche del secondo!), ma fa riferimento a un concetto di “natura” che ammette e postula l’intervento di un “incidente” che ha seriamente guastato la stessa natura umana.
Insomma, potrebbe ribattere qualcuno, è sempre la stessa storiella del peccato originale? In effetti sì, ma quella storia non è tanto importante perché così hanno deciso dei moralisti e dei teologi nei secoli scorsi, e neppure solo perché se ne ritrova traccia anche nella Scrittura (nelle Scritture, se è per questo, si trova traccia di mille e mille cose che noi ci guardiamo bene dal credere): quella storia è importante perché proprio nella nostra vita quotidiana ne vediamo i segni, e l’ingiustizia che si rappresenta in quanti accusano in sé la nostalgia della fede (ovvero il desiderio del desiderio naturale di vedere Dio) ne è la cicatrice massima.
Montanelli aveva ragione, sì: si tratta di “una profonda ingiustizia”, che però da un lato non riguarda soltanto lui e dall’altro non pregiudica in nulla la sua salvezza finale. Mina, sì, e radicalmente, la sua serenità e la sua felicità terrene, ma questo si ascrive senza particolari difficoltà all’immenso carico di infelicità e sofferenze che la razza umana, in hac lacrymarum valle, si porta dietro.
E come, allora, questo non pregiudicherebbe la sua salvezza finale? E perché soltanto alcuni tra quelli che non credono in Dio avvertono la nostalgia della fede? E che dire, allora, di quanti non avvertono neppure quella? La terza e la seconda di queste domande si raccolgono nelle innumerevoli sfaccettature della commedia umana, in cui si rifrange e si declina – come in un oscuro caleidoscopio – il riverbero del peccato originale: esso coinvolge tutto il genere umano, sì, ma in ogni storia umana si concreta in modalità differenti e con intensità proprie, per cui vi sono uomini più (o meno) sospinti dalla propria storia (ma mai costretti!) a smorzare nella propria natura la sete di Dio. Accade così che mentre la pioggia della Grazia viene ugualmente effusa su tutti gli uomini dall’Alto – così insegnano la fede e la ragione – alcune bocche scordano completamente di averne sete, mentre altre affermano di non aver mai ricevuto tra le labbra una sola goccia di grazia. Il che può certamente accadere, in teoria, anche nel più denso degli acquazzoni equatoriali, per quanto la perseveranza nell’apertura (della bocca/del cuore) abbia senz’altro la sua parte in merito.
Quanto alla prima delle ultime tre domande – quella sulla salvezza di chi geme come gemette Montanelli – proprio la risposta alle altre due sospinge verso il volto dell’“autore della fede” (Eb 12, 2), che è Gesù – la rivelazione suprema del Dio «che fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5, 45). Se di lui la fede cristiana predica insieme gli attributi di “giudice” e di “avvocato”, ciò è perché nessuno come lui vuole e può considerare tutta la storia di ciascuno, e ogni suo pur piccolo dettaglio, per volgere il giudizio verso la misericordia. L’inferno esiste, è eterno e finirci è sempre possibile, ma forse bisogna impegnarsi un po’ più di quanto un’affermazione come quella di Montanelli lascia pensare.
La conoscenza di Dio a mio avviso è determinata da tre fattori: 1) Meditare sulla Bibbia 2) Meditare sulla creazione 3) Applicare ciò che si impara…….